Commentando il crollo del muro di Berlino del 1989, Antonio Polito scrive (in “Il muro che cadde due volte”) che l’illusione comunista venne sostituita con un’altra. Scrive “scegliemmo la democrazia liberale, il mercato, l’Europa unita”. In realtà, fu scelto il capitalismo di mercato. Tutto ciò a conferma che un mondo di sinistra si era sgretolato, perdendo la sua spinta propulsiva. Inoltre, la nuova divisione internazionale del lavoro ha messo in crisi i punti fermi dell’edificio politico-culturale della Sinistra italiana, ad iniziare dai “fondamentali” economici. La sinistra non sa più dare una risposta alle crescenti disuguaglianze sociali; non sa più dare entusiasmo, vengono meno le illusioni. Lo scudo ideologico non c’è più. Vanno in soffitta parole d’ordine e simboli. Un mondo sta finendo, senza essere sostituito da una nuova credibile ipotesi riformista. Una volta caduta l’ideologia comunista, la Sinistra si è aperta, appunto, al neo-liberismo, non sapendo dare soluzioni idonee alla domanda di solidarietà sociale che le ricorrenti crisi del Sistema hanno accentuato. La debolezza della Sinistra ha favorito lo sviluppo del neo-liberismo, funzionale agli interessi del capitale.

Ne ha risentito, in particolare, il potere contrattuale dei lavoratori, favorendo il declino della coscienza di classe. E le nuove tecnologie applicate alla produzione hanno ormai trasformato i lavoratori in ingranaggi delle catene di produzione, indebolendo il potere operaio. Il benessere economico e la significativa riduzione delle disuguaglianze sociali degli anni sessanta sono un ricordo lontano. Lo scenario nazionale e internazionale si caratterizza, invece, per l’ascesa del neo-liberismo che afferma l’interesse superiore dei mercati e per la crescente debolezza dei lavoratori. Quindi, oltre al declino della Sinistra, c’è la crisi del modello di sindacato legato all’impresa tayloristica. Non c’è dubbio che la storica lotta di classe in fabbrica, come era intesa e sviluppata dal modello fordista, si sia progressivamente svuotata dei suoi contenuti tradizionali. Lo scontro sociale, ad iniziare dalla lotta alle crescenti e abnormi disuguaglianze sociali, si è, ormai, trasferito all’interno del confronto democratico che le forze sociali dovranno sviluppare nella società civile. La causa di tutto questo va ricercata nei profondi cambiamenti che le tecnologie digitali hanno provocato in misura sensibile nel mondo della produzione. Si è creata una profonda discontinuità con l’organizzazione industriale che ha governato la fabbrica fino a pochi anni fa. In particolare, le tecnologie digitali mettono in discussione la “rigidità” della produzione di massa (e in linea generale del fordismo) non solo a livello della grande impresa, ma anche nelle piccole-medie imprese più dinamiche e innovative. Si è accentuata la discontinuità nel sistema della produzione: la catena di montaggio tradizionale esce di scena. I lavori di routine vengono ormai eseguiti più efficacemente e più economicamente dai robots. È indubbio che l’intelligenza artificiale aiuti a risolvere le complessità di primo livello. Al fattore umano è, invece, lasciato il ruolo proprio delle figure di medio-alta professionalità che dialogano con l’intelligenza artificiale delle macchine, secondo modelli innovativi di creazione del valore. Cambia, conseguentemente, il mercato del lavoro. Si riduce sensibilmente la domanda di lavoratori non qualificati; cioè, dei cosiddetti “routinari” dotati di “skills “modeste.

Di converso, cresce di molto la domanda di lavoratori con elevate capacità tecniche, indispensabili per il buon esito dei cicli di lavorazione molto flessibili e aperti alle interconnessioni digitali di rete. Ciò consente di realizzare incrementi di produttività funzionali a una politica salariale molto incisiva a livello di fabbrica. Specificatamente, gli stipendi e i salari possono essere in crescita costante per i possessori di “skills” specifiche ,aumentando l ‘ emarginazione degli altri lavoratori. La nuova politica del lavoro nelle aziende è dettata non solo dalla digitalizzazione della produzione, ma anche dalla globalizzazione che impone una forte competitività, dove i prezzi e le” performance” vengono messi in concorrenza tra competitors operanti in un mercato sempre più globale per tutte le imprese. Tra i vari effetti della digitalizzazione e della globalizzazione, c’è quello di ridurre il più possibile i costi delle mansioni ripetitive, grazie alla larga disponibilità di macchine intelligenti. Sul mercato, infatti, c’è un’abbondante offerta di macchine intelligenti che sostituiscono il lavoro manuale, senza che vi sia un processo contemporaneo di riassorbimento dei lavoratori espulsi.

Inoltre, insieme alla nuova domanda di intelligenza artificiale si verifica anche un’elevata richiesta di creatività, di cui naturalmente è sprovvisto il robot. Così, in fabbrica, quello che conta è il livello della complessità creativa, propria dei compiti del lavoratore con alta professionalità. Cresce, quindi, l’importanza del lavoro immateriale. Non solo, l’operaio fordista aveva un suo spazio di lavoro ben definito e circoscritto, la sua vita di lavoratore si svolgeva in un metro quadrato. Al giorno d’oggi lo spazio di lavoro è indefinito e flessibile, perché è interconnesso non solo con altri reparti all’interno della fabbrica, ma soprattutto è in rete con altri operatori esterni, creando così importanti ricadute di valore aggiunto sul prodotto. Sovente si tratta di reti flessibili e polivalenti, destinate spesso ad avere una durata limitata nel tempo, perché l’innovazione si rinnova velocemente e può essere importata da punti di recente avanguardia tecnologica presenti nella rete globale. Cambia il tradizionale modello di lavoro, con la conseguenza che, nella sua attuazione organizzativa, sono spariti i capi, capetti e tecnici vari che, in base alle “distinte di base”, controllavano i tempi di lavorazione degli operai. Non ci sono più le tradizionali “controparti “, che trasmettevano la voce del “padrone”. Al posto dei lavori ripetitivi ci sono sempre più le macchine, già programmate e teoricamente infallibili. La loro produttività è realizzata e verificata tramite il software disegnato dall’azienda, abbandonando il controllo fisico dei tempi del lavoro ripetitivo. In tal modo, la conflittualità di “linea” non ha più giustificazione.

Invece, diventa lavoro sempre più strategico, per certi versi, quello che, richiedendo “skills” di alto livello, pone il lavoratore in una prospettiva radicalmente nuova nei confronti dell’azienda dove lavora. Oltre al venir meno delle tradizionali gerarchie appare sempre più incisivo, nella formazione del valore, il lavoro flessibile, innovativo e interconnesso in rete con operatori esterni all’azienda di appartenenza. Per cui si lavora per progetti, che coinvolgono digitalmente più attori uniti tra loro dalla progettualità e non più dalla gerarchia dettata dalla tradizionale piramide degli organigrammi aziendali. Come dicevamo, la nuova gerarchia si fonda sulle skills, meglio se riconosciute come competitive dal mercato globale. Con questa innovazione organizzativa vengono meno molte occasioni favorevoli al sorgere di autoritarismi dirigenziali, che sovente sono alle base di conflitti aziendali. La nuova catena della creazione di valore prevede, tra l’altro, l’auto-organizzazione del tempo di lavoro, soprattutto per quanto riguarda la fase creativa. Si può parlare di una riappropriazione del proprio tempo da parte del lavoratore. Alcuni studiosi (F. e E. Rullani) sostengono che, grazie al digitale, il lavoratore, in certe circostanze, diventa imprenditore di se stesso. Il lavoro dipendente in fabbrica è cambiato nella sua composizione qualitativa, in primis con la riduzione della presenza della componente operaia, (I lavoratori espulsi molto raramente vengono riassorbiti). In definitiva, la classe operaia- scrive Antonio Polito (“Le regole del cammino”) non c’è più”. Il fine di realizzare la pace sociale sarà sempre più delegato alla dialettica di una società democratica, grazie a una politica sociale che non affidi all’efficienza egoistica del mercato la risoluzione delle nuove disuguaglianze ed emarginazioni sociali.

A questo proposito, il primo passo da fare è per la difesa e la crescita di lavoro che garantisca nuova occupazione; (non il solito e obsoleto “ posto fisso” di lavoro, di cui non va difesa l’inefficienza, né l’ingiusto assistenzialismo). Il secondo step consiste nel rigetto degli interessi elettorali che promuovono una distribuzione del reddito in base al potere delle parti in gioco, scartando criteri di giustizia sociale. Il terzo prevede un sistema territoriale permanente di formazione professionale, che abbia il punto di forza nei Comuni, e non più nelle Regioni che finora hanno collezionato numerosi insuccessi. Tenendo ben presente che il lavoro è un bene fondamentale per l’uomo, che, tramite esso, realizza la propria dignità, e che il fattore lavoro deve avere il primato sulle logiche del capitale, è opportuno pensare a nuove relazioni industriali, oggi ancora sostanzialmente ancorate al fordismo. Va ribadito che la nuova catena del valore dà spazio nella governance aziendale ad un ruolo di più qualificata presenza del lavoratore, sempre più in grado di partecipare alle decisioni che riguardano la sua attività. Non solo, in gioco vi è anche la responsabilità del singolo lavoratore per un’economia sostenibile. In altri termini, se il lavoro è creativo e partecipativo, il lavoratore non può non essere coinvolto in azienda nella definizione della politica degli investimenti e dei redditi che condiziona la produttività e la competitività dell’impresa, da cui dipendono gli aumenti salariali che lo riguardano. Alla luce di quanto analizzato, c’è la necessità di rivedere, al fine del confronto sociale, la contrattazione collettiva, la formazione professionale, le infrastrutture sociali e l’offerta culturale. L’obiettivo prioritario, in azienda, è creare un circuito virtuoso tra investimenti in capitale umano e creazione di valore; mentre, nella società civile, va favorita la presa di coscienza di una nuova mentalità: l’appartenere ad una comunità, anche internazionale, dove le ricchezze accumulate andranno utilizzate a beneficio di tutti.

I cambiamenti descritti determinano un incremento dell’importanza del ruolo degli accordi aziendali rispetto al contratto nazionale. Le critiche in proposito sostengono che il soggetto forte qui è l’imprenditore, non il lavoratore, per cui la contrattazione decentrata produrrebbe una dispersione salariale. È una critica che non tiene conto degli effetti dei cambiamenti che hanno radicalmente modificato la catena della creazione del valore, soprattutto a livello internazionale. Specificatamente, hanno inciso i processi di outsourcing e di delocalizzazione che, decentrando, a livello globale le fasi di lavorazione, anche quelle strategiche, hanno, di fatto, eliminato il tavolo nazionale della trattativa sindacale. Di conseguenza, sono cambiati, rispetto al passato, gli attori del patto sociale: in particolare, possono essere garanzia di benessere economico e sociale dei lavoratori le nuove politiche sociali attuate dagli enti locali. In conclusione, va ripensata la politica di coesione sociale, nella consapevolezza che i sindacati e le organizzazioni dei datori di lavoro sono stati protagonisti positivi della gestione del patto sociale, anche grazie ad una conflittualità che ha rispettato le regole della democrazia.

Roberto Pertile

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