La Global Sumud Flotilla, partita con l’obiettivo di portare aiuti umanitari alla popolazione di Gaza, si è trasformata in un simbolo controverso del pacifismo contemporaneo. Nata come iniziativa civile e transnazionale per denunciare il blocco navale imposto da Israele, la missione ha finito per riflettere le contraddizioni della politica occidentale verso il conflitto israelo-palestinese: un impasto di moralismo, ideologia e impotenza diplomatica.
Lo “spirito” della Flotilla — la solidarietà verso una popolazione assediata — resta moralmente ineccepibile. Ma l’ideologia che ne ha guidato parte dell’azione ha mostrato la fragilità di un pacifismo incapace di farsi strategia. Il conflitto israelo-palestinese, che dura da oltre settant’anni, ha assunto oggi una dimensione inedita.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 ha spezzato ogni illusione di status quo, riportando Israele a una logica di guerra totale e Gaza a una condizione di devastazione permanente. Il governo Netanyahu, appoggiato da frange ultranazionaliste e religiose, ha risposto con un’offensiva che molti osservatori internazionali definiscono “sproporzionata”. Nel contempo, la diplomazia europea — divisa, ambigua e timorosa — non è riuscita a proporre una mediazione credibile. In questo contesto, la Flotilla si è proposta come atto di supplenza morale: se gli Stati tacciono, parlino i cittadini.
Ma questa forma di resistenza simbolica si è scontrata con la realtà geopolitica: Israele considera ogni nave diretta verso Gaza una minaccia alla propria sicurezza, e nessun paese europeo è disposto a mettere in discussione apertamente il blocco. Il risultato è stato un gesto di protesta più che un’azione di pace, più morale che politica, più etica che strategica.
Ideologia settaria e estremismi: molto rumore, poca prospettiva
Le tensioni interne alla Flotilla riflettono una crisi più ampia del pacifismo europeo.
Tra i partecipanti italiani figuravano anche quattro parlamentari della sinistra, la cui presenza è stata interpretata come un segnale politico contro la linea moderata del governo. Tuttavia, il loro immediato rientro in Italia con un volo speciale — mentre altri attivisti restavano in Israele per affrontare le conseguenze dell’operazione — ha suscitato l’accusa di incoerenza. Un episodio che fotografa un fenomeno più vasto: l’uso simbolico della protesta pacifista come gesto di visibilità, più che come impegno politico reale. In parallelo, il rifiuto degli attivisti di affidare gli aiuti al cardinale Pierbattista Pizzaballa, Patriarca latino di Gerusalemme, che si era offerto come mediatore per una consegna sicura e verificabile, mostra il limite di un pacifismo ideologico.
Quando la purezza del gesto prevale sull’efficacia concreta, l’azione umanitaria si piega al dogma politico. E così, paradossalmente, l’obiettivo di aiutare i civili di Gaza viene sacrificato sull’altare dell’intransigenza simbolica.
Tra Hamas e Netanyahu: due estremismi che si alimentano
Sul piano geopolitico, la vicenda della Flotilla mette a nudo un’altra verità: nel conflitto israelo-palestinese, gli estremismi si legittimano a vicenda. Hamas, organizzazione armata e autoritaria, utilizza la sofferenza civile come strumento di pressione politica e come scudo narrativo. Israele, a sua volta, giustifica la distruzione di Gaza come atto di autodifesa, ma finisce per rafforzare le ali più radicali del fronte palestinese. In mezzo, la comunità internazionale — e in particolare l’Europa — si muove con un linguaggio stanco, oscillando tra condanna e silenzio, senza una visione d’insieme.
Il pacifismo occidentale, quando si limita alla denuncia, non incide sulla realtà: resta un atto di testimonianza, non di trasformazione. Eppure, la necessità di una “diplomazia del realismo umanitario” — capace di coniugare principi morali e strategie politiche — non è mai stata così urgente. Senza un progetto concreto per “due popoli, due Stati”, la retorica della pace rischia di diventare un alibi per la rassegnazione.
Dall’ideologia al realismo
La Sumud Flotilla ha riacceso un tema dimenticato: il destino di Gaza e la coscienza dell’Europa. Ma ha anche mostrato che la politica dei gesti simbolici non basta più. Il pacifismo del XXI secolo deve uscire dalla dimensione rituale — la piazza, la protesta, la nave umanitaria — per tornare a incidere sui processi politici reali: trattati, mediazioni, riconoscimenti, garanzie di sicurezza.
La nobiltà dello spirito non deve morire, ma deve farsi progetto. Solo così la causa dei civili di Gaza potrà uscire dal recinto dell’ideologia e tornare nel campo della responsabilità politica: quella che riconosce i torti, misura le forze e costruisce la pace come scelta, e non come un bel sogno che all’alba svanisce.
Michele Rutigliano