In occasione della giornata mondiale dei poveri, desidero porre all’attenzione l’esempio di S. Antonino Pierozzi: arcivescovo di Firenze dal 1446 al 1459.

«L’immenso movimento di santità, di arte, di pensiero, di vita politica e civile di cui Firenze fu l’epicentro e che da Firenze s’irradiò sul mondo intero (irradiazione in atto ancora oggi) – scrive Giorgio La Pira- porta un nome che lo sintetizza e lo esprime: il nome di S. Antonino Pierozzi, priore di S. Marco. Il seme mistico, profetico che preparò questa fioritura ancora tanto valida per la Chiesa, la cristianità e per le nazioni tutte, fu appunto il seme misterioso che porta questo nome indelebilmente non solo sul ”frontone” di S. Marco, ma sul “frontone” di Firenze”.»

Sant’Antonino condivise in tutto e per tutto gli ideali di povertà dell’Ordine, praticandola per primo come frate, e poi come Priore e Arcivescovo, ma seppe usare la facoltà della “dispensa” per rispondere alle esigenze pastorali della sua epoca e della sua città. Nella vita privata Sant’Antonino non fu meno rigoroso del Beato Angelico nell’osservare la povertà, ma, forse, nel caso del restauro del convento ritenne opportuno accettare l’offerta di Cosimo de’ Medici e mitigare l’austerità monacale per contribuire al benessere dell’Ordine e forse anche in previsione del Concilio di Firenze che sarebbe iniziato nel 1436.

Così non fu un adattamento della Chiesa  ad una “ protezione” profana. Per Sant’Antonino, tutte le virtù iniziavano dalla povertà ed il Domenicano non toccò denaro se non per distribuirlo ai poveri e ai bisognosi. Nessuno, tantomeno Cosimo, riuscivano a capacitarsi del modo estremo di vivere la povertà di Sant’Antonino.

Che un uomo di Chiesa fosse povero, anche in una città come Firenze, non era una cosa sorprendente, ma addirittura un Arcivescovo, un Principe della Chiesa…. Era incredibile! Il nostro Domenicano era parco anche nel cibo: fra l’altro si narra che non mangiasse carne. Questa sua abitudine fu interrotta solo quando, alla fine della vita, logorato dalla malattia, fu costretto dal medico a cibarsene.

Durante tutta la vita Sant’Antonino indossò una semplice tunica di vilissimo panno; portò uno scapolare breve e anche se molti gli consigliarono di indossare la “cappa lunga con la coda” indossò sempre quella corta. Mantenne questa frugalità anche quando divenne Arcivescovo. Nessuno vide mai il suo stemma perché non lo volle affatto.

Addirittura , si narra, che non possedesse un mantello  e quando il Magistrato di Firenze lo pregò di andare in ambasceria a Roma, un nobile che lo accompagnava, Bartolomeo Martini,  cercò di sopperire a questa mancanza donandogli uno dei suoi. Ma il Santo, ad imitazione di San Martino, vicino alle porte di Roma lo diede, in elemosina, ad un povero.

Nel palazzo arcivescovile il nostro Domenicano non volle vivere nel lusso e nella sue stanze non c’erano arazzi o paramenti. In camera c’era solo mobilio da frate con un letto senza lenzuola ricamate e ricche coperte. Non volle cavalli o carrozze; preferiva andare a piedi e nemmeno il ronzino che, talvolta, gli serviva da cavalcatura era suo, avendolo avuto in prestito dall’Ospedalingo di Santa Maria Novella.

La cosa incredibile per uno studioso come lui, abituato a leggere testi e consultare fonti , è che non possedesse neppure una modesta biblioteca personale. Ricorreva alle opere della Biblioteca del Convento di San Marco o di San Domenico di Fiesole. Di proprio, come testimonia Vespasiano da Bisticci, nella sua biografia del Santo, oltre alle opere che veniva componendo, aveva solo il Breviario.

Questa frugalità non impedì che l’Arcivescovo fosse trattato con il dovuto rispetto da tutti  e anzi , al suo passaggio, la gente cadeva in ginocchio: “ sanza cavalli e sanza vestimenti, sanza famiglia e sanza ornamento…. Era più stimato e più riverito, che s’egli fussi andato colle pompe, con che vanno i più dei prelati…”

( Vespasiano da Bisticci, Vita di Uomini illustri del XV° secolo, pag,127).

Nino Giordano

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