1. La vita è fatta di priorità. Per chi crede, l’anima è più importante del corpo: quest’ultimo è destinato a corrompersi, nonostante gli sforzi transumanistici dei creatori di cyborg, mentre l’anima resta l’unica polizza valida per l’Eternità. Tuttavia anche per chi non crede non tutti i ‘valori’ sono uguali: alcuni misurano il livello di civiltà di un ordinamento e condizionano la qualità della vita, soprattutto dei più deboli. La Giustizia è uno di questi, soprattutto nella sua funzione di difesa dai nemici interni al corpo sociale.

“Dare a ciascuno il suo”: in questo consiste, in ultima analisi, la Giustizia. Da chi la amministra attendiamo che riconosca quello che ci spetta, perché ce lo siamo guadagnati, o perché più semplicemente apparteniamo al genere umano. Reclamiamo giustizia se siamo stati privati dei beni indispensabili per il nostro vivere, o se siamo stati offesi nel nostro decoro e nella nostra dignità: pur sopportandone i tempi, come nell’episodio evangelico della vecchina e del giudice neghittoso.

Da qualche tempo, però, non è più così; ancor più in epoca di pandemia.

2. Taluni reati sono precipitati in fondo alla scala dei cosiddetti criteri di priorità. Inizialmente, per ragioni, per così dire culturali se non esplicitamente ideologiche: per la (supposta) necessità del pubblico ministero di farsi interprete della offensività di condotte ancora qualificate come criminose dalla legge penale. Se si ritiene che il giudice non possa limitarsi a interpretare la norma, ma debba crearla, a ciò spinto dalla coscienza sociale, a maggior ragione il pubblico ministero non può perder tempo a perseguire offese verso beni considerati non più rilevanti dal sentire collettivo. In quest’ottica il magistrato – sia giudicante che requirente – è diventato interprete dell’evoluzione della volontà generale più che della norma.

In un secondo momento sono state la penuria delle risorse e la tagliola della prescrizione a imporre una selezione dei processi, e quindi dei reati da perseguire. Si è cioè stabilito che se è vero che esiste ancora sulla carta (costituzionale) l’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, che impone al pubblico ministero di attivare la pretesa punitiva per tutti i reati, questa in realtà va interpretata ragionevolmente. In che modo? Fissando criteri di priorità, in base ai quali privilegiare taluni crimini su altri, riservando loro, d’intesa con Tribunale e Corte di Appello, vere e proprie corsie preferenziali.

3. Infine è sopraggiunta la pandemia, che ha certificato la necessità di accantonare una porzione più o meno consistente di reati (a seconda dei distretti) che, anche in ragione dell’emergenza sanitaria, è il caso di confinare negli archivi della Procura della Repubblica, al fine di evitare in udienza inutili assembramenti di fascicoli sulla scrivania del giudice. Poco importa se dietro quelle carte vi sono vittime di crimini in attesa di una giustizia che non verrà mai: se la vecchina del Vangelo vivesse oggi dovrebbe rassegnarsi, perché il giudice non le darebbe ascolto mai.

Non intendo affrontare in questa sede il merito delle scelte fatte in ciascuna Procura della Repubblica. Mi limito a due rilievi di fondo.

Il primo è una constatazione: i criteri di priorità disegnano una giustizia penale a geografia variabile, dove il confine fra un distretto e un altro può significare l’impunità per taluni reati; con tutto quel che ne consegue in termini di allocazione delle risorse da parte delle organizzazioni criminali, da sempre interessate allo shopping giudiziario.

Il secondo è un interrogativo, che è anche un grido di dolore. Chi ha investito i Capi delle Procure – e più in generale, i vertici degli uffici giudiziari – del compito di stabilire quale domanda di giustizia è meritevole di risposta e quale no? Siamo davvero convinti che sia un bene per il corpo sociale – e per la stessa magistratura – legittimare amnistie su base localistica?

4. A ciascuno il suo, si è detto. Orbene, il compito di decidere se una condotta non è più reato spetta al legislatore; perché solo i rappresentanti del popolo rispondono al popolo delle scelte compiute.

I magistrati, invece, devono rispondere alla legge. Ed al tribunale della propria coscienza, per la quale non possono esistere vittime di serie B.

Domenico Airoma

Pubblicato su Centro Studi Rosario Livatino ( CLICCA QUI )

About Author