I risultati elettorali nelle ultime tornate regionali e amministrative — dalle Marche alla Calabria, fino alla deludente Toscana — raccontano una storia chiara: la Lega di Matteo Salvini non convince più. Non al Sud, dove il progetto di “nazionalizzare” un partito nato come espressione del Nord produttivo si è rivelato un fallimento, ma ormai nemmeno al Centro, dove la Lega non è mai riuscita a radicarsi davvero. E adesso scricchiola anche al Nord, la sua culla storica. Dalle elezioni politiche del 2022 fino ai risultati locali più recenti, il calo è costante e profondo. In molte regioni la Lega è ridotta a percentuali a una cifra, spesso doppiata da Fratelli d’Italia e superata persino da Forza Italia. È un declino che va oltre le cifre: è la crisi di una identità, di un progetto politico che si è snaturato, perdendo il legame con i territori e con quel ceto produttivo che ne costituiva la spina dorsale. La “Lega per Salvini Premier”, nata per conquistare l’Italia intera, si è trasformata in una macchina elettorale senza bussola, incapace di parlare alle differenze locali e di interpretare i bisogni concreti dei cittadini. Il risultato è un movimento in apnea, in cui la retorica sovranista e i simboli di destra estrema hanno sostituito la concretezza amministrativa e la cultura di governo.

Zaia, Fedriga e Fontana: il Nord mormora

Il malessere interno è ormai palese. Gli storici governatori del Nord — Luca Zaia in Veneto, Massimiliano Fedriga in Friuli-Venezia Giulia e Attilio Fontana in Lombardia — rappresentano l’anima amministrativa e istituzionale del partito. E da mesi non nascondono la loro insofferenza verso la deriva populista imposta dal leader. Dietro le quinte, le tensioni si fanno sempre più esplicite. Non si tratta solo di divergenze tattiche, ma di un conflitto profondo su quale debba essere l’identità della Lega. I “nordisti” reclamano un ritorno alle origini, al pragmatismo delle politiche territoriali, al dialogo con le imprese e con le autonomie locali. Salvini, invece, continua a inseguire un consenso plebiscitario che non esiste più, rinchiudendosi in slogan securitari e battaglie identitarie sempre meno popolari. Perfino voci vicine allo storico gruppo dirigente, come Gianna Gancia — moglie del senatore Calderoli, ex eurodeputata e oggi consigliera regionale in Piemonte — hanno lanciato segnali di allarme. In una recente intervista, la Gancia ha parlato apertamente della necessità di “riflettere sul futuro del movimento”, evocando una crisi di leadership e di credibilità. È un modo garbato per dire che la fiducia nel “capitano” si sta consumando anche tra chi gli è stato vicino per anni.

Il populismo che divora se stesso

La parabola della Lega somiglia oggi a quella di molti movimenti populisti europei: nascono per contestare il sistema, ma finiscono per restarne intrappolati. Salvini, dopo aver portato la Lega al 34% alle Europee del 2019, ha creduto di poter trasformare un partito territoriale in un partito-nazione. Ma quella scommessa si è rivelata azzardata. Il consenso del Sud, costruito sull’illusione di un “nuovo centrodestra popolare”, è evaporato in pochi anni. L’alleanza con Giorgia Meloni, che inizialmente doveva consolidare il fronte sovranista, ha invece accentuato la marginalizzazione del leader leghista. Mentre Fratelli d’Italia cresce e governa, la Lega appare impantanata tra ministeri di secondo piano e continue retromarce politiche. L’immagine di Salvini, un tempo percepito come il volto dell’orgoglio del Nord, è oggi quella di un politico logoro, prigioniero della sua stessa propaganda. E mentre le piazze si svuotano e i gazebo restano semideserti, il Nord produttivo torna a guardare altrove. I voti migrano verso partiti più stabili, verso il centro o verso l’astensione. L’idea originaria di un movimento capace di unire l’efficienza amministrativa al radicamento locale si è dissolta, inghiottita dal linguaggio urlato dei social e dalla logica dell’emergenza permanente.

La Lega, nata come simbolo del territorio, si è fatta partito personale e, infine, partito evanescente. Ora il rischio è che si concluda proprio dove tutto era cominciato: al Nord, fra elettori stanchi e amministratori disillusi. Se non cambierà rotta — tornando alla politica concreta, al federalismo responsabile, al rispetto delle differenze — la Lega di Salvini potrebbe essere arrivata al suo capolinea, con buona pace del suo nucleo storico che voleva rendere il Lombardo-Veneto , la Baviera d’Europa.

Michele Rutigliano

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