La politica sotto la lente della psicanalisi, ecco un esperimento che vale la pena di fare proprio in vista della imminente campagna elettorale italiana. Il bellissimo e recente testo di Massimo Recalcati “La legge della parola- Radici bibliche della psicoanalisi” ci offre una serie di considerazioni utilmente applicabili al mondo della politica, specie a quello italiano. E’ lo stesso autore, mi pare, che autorizza questa “estensione di senso” laddove ci dice, con riferimento alla vicenda biblica della torre babelica,  che “la decostruzione della lingua unica è ciò che rende possibile la vita della comunità” ( p- 123) e che “le lingue nelle quali Dio obbliga lo smembramento  della lingua unica dei babelici sono dunque un immagine potente della democrazia come condizione di esistenza per ogni comunità che vuole restare umana” ( p. 125). Recalcati ci dice insomma che solo la parola aperta, plurale, demassificata e deglobalizzata – quella che si usa nel dia-logos e che serve al confronto razionale- può essere la vera base di ogni comunità realmente umana e realmente democratica.

Esattamente l’opposto di quanto realizza la parola chiusa in se stessa, narcisistica, solipsistica, malevola, usata come arma contro l’avversario politico e come veicolo di fidelizzazione e identificazione di una determinata sigla politica come avviene nella democrazia dei “followers” e degli “influencers” in cui essa è impiegata per replicare e sostenere asserzioni dogmatiche e slogan ( “gridi di guerra”) sempre oppositivi rispetto ad altri ( del tipo mai col partito X, sostegno all’agenda Draghi, sì al presidenzialismo prossimo venturo, più armi all’ Ucraina, pace fiscale, chi ha un voto in più è il leader, lotta al “populismo”  ecc.) di fronte ai quali sarebbe utile forse staccare la spina.

Proprio per questo l’uso umano della parola aperta sarebbe importantissimo per fermare la disastrosa deriva della democrazia, anche se sarà difficile farlo  in questa anomala campagna elettorale in cui gli Italiani sono chiamati al voto in piena estate e con una legge elettorale disastrosa  che è il risultato casuale di interventi normativi scoordinati e demagogici ed è  persino sotto ricorso per sospetta incostituzionalità.

Secondo Recalcati la parola in senso biblico, – quelle del Decalogo sono “parole” ( devarim) non “comandamenti”!- è l’orizzonte simbolico che precede la vita e la istituisce in quanto umana ( p.58). La parola in senso biblico non è un termine che usiamo per comunicare elementi di una realtà già data. Quella  parola conforma la realtà,  istituisce sempre una relazione, perché esiste prima della realtà che essa crea. E l’uomo è, a sua volta,  un essere relazionale, che non può vivere senza questa parola. Laddove si nega l’ossigeno della parola dell’altro si rende impossibile la vita, alligna il narcisismo assoluto, domina l’egolatria estrema, qualcosa che apre la strada alla violenza sull’altro, alla propria auto- affermazione assoluta.

Laddove tace la parola, si apre la strada alla violenza- la violenza non parla- e alla guerra, ma  prima di tutto anche alla distruzione del pensiero. La parola implica sempre il rapporto, la differenza, l’alterità. Non può esistere una vera comunità umana  da cui la differenza sia esclusa: tutti i tentativi di creare un unico popolo, un’ unica lingua, un unico mercato, una concorrenza globale come principio assoluto e ordine invisibile e unico del mondo sociale, un unico pensiero, un’unica verità producono l’allucinazione ideologica dei fondamentalismi di destra e di sinistra, liberisti e comunisti. La vita reale diviene uguale al  nulla,  perché esiste solo l’astrazione dell’ Idea. Un’astrazione che purtroppo ha sinora dominato e continua a dominare anche l’ Europa politica. Così accade nella società dell’astrazione post-ideologica in cui viviamo, per questo abbiamo invocato – dopo la pandemia- , senza capire bene il senso delle parole, una  “società della cura” che è l’ opposto esatto della società dell’astrazione, per poi tornare rapidamente a dimenticarcene abbacinati dalla nuova e terribile “astrazione” della guerra, che trasforma gli uomini in numeri e cose e pare perciò un mezzo, meno gradevole certo, ma utile o necessario talvolta per risolvere problemi altrimenti insolubili.

Il linguaggio uniformante di questa astrazione – il linguaggio che rifiuta la pluralità della parola- il linguaggio matematico o tecnologico o economico dissolve il senso dell’impossibile ( p.87) ci fa uguali a Dio , costruisce un antropocentrismo che esclude ogni umanesimo e diffonde una volontà di potenza che passa ogni limite ( p.117). Di qui la difficoltà di sbarazzarci delle persistenti idolatrie di massa- appartenenti a prima vista ad un passato lontano e superato-  che riguardano la guerra, il denaro, il potere e la nazione.

Cosa c’entra tutto questo con la democrazia e la politica oggi? C’entra moltissimo. La democrazia sta smottando anche nel cuore d’ Europa, e soprattutto in Italia, perché sta smottando il senso relazionale della parola. La legge della parola descritta da Recalcati è esattamente la parola della Costituzione, una parola costitutiva e relazionale al sommo grado, assolutamente lontana da ogni astrazione e forzatura idealistica. E’ per questo, per il fatto che abbiamo dimenticato il senso originario della parola,  che è improvvisamente divenuto facile oggi accettare il non-linguaggio, la non-parola  della guerra. Ed il pacifismo pare incredibilmente un relitto del passato.

Sperimentiamo ormai l’assenza della parola dia-logica e quindi della politica che su essa si fonda, essendo la parola un mezzo per costruire la relazione. La parola della politica è ormai il logos dei sofisti , il logos nichilista di Gorgia ( “niente è”) è pura proiezione di potere, un tiranno che serve a dominare le menti ed a fare seguaci fedeli. E’ parola che mira all’autoaffermazione ed alla sconfitta dell’avversario.   Non è parola che debba avere alcun contenuto descrittivo o illustrativo. E’  parola vuota di contenuto, ma non di indicazioni e riferimenti utili ai followers. E’ slogan oppositivo e nient’altro.

Ma una democrazia senza la parola intesa come elemento costitutivo e prioritario della relazione, una democrazia senza politica non può evidentemente costituire una vera comunità democratica. Può essere solo finzione oppure oclocrazia, dittatura delle masse, o “populismo” come si usa dire  oggi nella neolingua introdotta dai media, che vorrebbero farci credere che abbiamo a che fare con realtà sociali radicalmente nuove, per cui il passato e la storia ( ed ovviamente la Bibbia) non ci servono a niente.

In particolare questa perversione della parola ha prodotto in Italia una democrazia dimezzata.

La parola, diversamente dalla violenza e dalla guerra, ha bisogno del tempo , essa non offre la via più breve o la scorciatoia verso il risultato atteso. E la democrazia, esattamente come la parola,  ha bisogno anche essa del tempo. Il  tempo della democrazia non può essere l’immediatezza o l’istante ( “Il futuro è oggi”!), al contrario di ciò che sostengono molti “politici” (la necessità di velocizzare, sempre e comunque, la decisione politica, intesa come produzione normativa non come azione dell’esecutivo).

Ma se oggi non si accetta la durata e il tempo, se oggi si persegue la realizzazione di una democrazia “immediata” è solo perché ci si preoccupa dei “follower”, ci si preoccupa di restituire al popolo le idee immediate del popolo, “nobilitate” dai sondaggi d’opinione. E in tal modo si persegue (ma questo si na­sconde con cura) l’obiettivo di distrarre l’attenzione dei cittadini dalle decisioni di lungo periodo, concentrandola sulle questioni dettate dall’“emergenza” organizzata del conflitto che, volta per volta, è  “portato in scena”, secondo le esigenze del maggior consenso.

Si sono in tal modo creati due livelli decisionali, due circuiti decisio­nali non interconnessi tra loro, su cui si muove la democrazia. Il primo, quello “emergenziale”  ( ma quando mai l’ Italia noon è in emergenza? C’è solo da scegliere quale) è un livello funzionale al consenso immediato, quello che si occupa di problemi contingenti e impellenti, cioè di problemi vicini al “senso comune” e utili comunque a costrui­re slogan e rafforzare identità che si “combattono” senza esclu­sione di colpi nella pubblica arena, il livello che serve soprattutto in campagna elettorale, la guerra di tutti contro tutti che fa la felicità dei media.

L’ altro livello è quello funzionale al­l’interesse di lungo periodo da affidare ad autorità “esterne” o “indipendenti”, “tecniche” (non importa quali, basta che siano lontane dal popolo). Il primo livello, la lotta politica messa in scena”, la “campagna elettorale permanente” è quella che in Italia si svol­ge, senza esclusione di colpi, slogan contro slogan, senza esclusione di colpi,  anche attraverso  accuse e denunce dell’avversario politico, occupando tutto lo spazio disponibile dei media e dei social, è il livello della “gran­de semplificazione” dei problemi e della lotta condotta sui single issues o su obiettivi a valenza identitaria (bonus edilizio, reddito di cittadinanza, salario mini­mo,  ecc.). E’ la  «de­mocrazia dei follower»

Il secondo livello, quello delle “policies”, cioè delle politiche di ampio respiro, è il livello importante ma opaco, che verte sulle scelte di fondo e strutturali, ripa­rate dietro il manto delle competenze specialistiche, su cui si discute sì, ma solo nei consessi riservati e da parte di un ristretto numero di “competenti”. È il livello, in origine. della funzio­ne regolatrice – con l’arrivo dello “Stato regolatore” – che ha messo in crisi la legge (e quindi il dibattito politico) come fonte che disciplina i rapporti giuridici. È stato, ad esempio, in Italia il caso della costituzionalizzazione della legge di bilancio, pas­sata sì in Parlamento, ma in modo decisamente anomalo, senza discussione pubblica, senza dibattiti e senza contestazioni pub­bliche, nel silenzio “cooperante” dei principali organi di stampa e approvata all’unanimità o quasi in Camera e Senato. È ciò che potremmo chiamare “democrazia dei competenti”. Ed è oggi il livello delle grandi scelte macro-economiche e strategiche, ciò che oggi si include dentro l’assunto “Lo vuole il PNRR” come un tempo si diceva “Lo vuole l’ Europa”, naturalmente senza mai entrare nel merito di come la normativa europea si traduca nella normativa interna. L’importante è che su tali questioni non si discuta mai nei corpi rappresentativi  ma solo entro gli organi della cosiddetta  “governance”.

Finché questi due livelli resteranno separati non ci sarà mai vera democrazia politica e vero confronto di idee e prospettive, ma da un lato fidelizzazioni astratte ( “più Europa” a prescindere)  dall’altro opposizioni di sistema.

Questi due livelli potranno tornare a coincidere solo quando ritroveremo la legge della parola, quella della Bibbia e quella della nostra Costituzione. Sarebbe opportuno cominciare a usare in modo nuovo ( e antico) la parola nella imminente campagna elettorale. Non dovrebbe esser difficile.

Umberto Baldocchi

 

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