In questi giorni di campagna elettorale sentiamo un gran parlare di programmi. Il tema strategico della partecipazione alla sicurezza internazionale e della Difesa sono finite condizionate dalla sola questione dell’Ucraina. Può essere altrimenti per l’alta drammaticità della situazione, per il numero di morti e per le distruzioni in corso?

Il tema Difesa, invece, andava affrontato da tempo nella piena consapevolezza che esso significa sbrogliare anche la matassa ulteriormente aggrovigliato dal conflitto in atto per il sovrapporsi  della questione del ruolo della Nato e l’ipotesi, di cui si cominciava a parlare proprio prima dello scoppio del conflitto ucraino, di pensare ad una Difesa europea. Sembra che, in qualche modo, ciò che viviamo in questi giorni abbia allontanato di molto questa seconda possibilità e consegnato anche i problemi della sicurezza europea nelle mani della sola Nato.

E’ così facile per qualcuno pensare di risolvere sia la vicenda ucraina, sia il problema più generale della difesa degli europei scoprendo un “atlantismo” di maniera, persino strumentale, e che magari  ha sempre contrastato, più o meno apertamente nel corso dei decenni passati. Eppure, le verifiche su un autentico afflato europeista non può che riguardare anche quello della difesa comune che, un giorno o l’altro, l’Unione dovrà mettere tra i punti principali della propria agenda.

La nostra situazione politica la conosciamo tutti e sappiamo benissimo come i partiti siano sostanzialmente incapaci ad affrontare i grandi temi che riguardano il Paese se non procedendo a colpi di slogan. Ma è chiaro che nel corso della prossima legislatura la questione si riproporrà, anche in relazione agli sviluppi del conflitto attualmente in corso e, paradossalmente, ancora di più se si dovesse prospettare, come tutti speriamo, la possibilità di giungere ad una soluzione negoziata.

A tutti sarà richiesto uno sforzo di verità e di competenza destinato a partire da una disamina dello scenario internazionale, sapendo che l’Italia deve guardare in tante direzioni, non solo verso i confini orientali dell’Europa. Le tante tensioni esistenti già nel solo bacino del Mediterraneo già sarebbero di per sé sufficienti a farci capire quanto si dovrebbe superare il limite di coltivare quasi esclusivamente le nostre dinamiche domestiche. Il “Mare Nostrum” è da sempre luogo di scambi, rimescolamenti e collaborazioni, ma anche di conflitti, oltre a divenire spesso il terminale di altre tensioni, quelle, come dimostrano i fenomeni migratori, che si originano e si perpetuano molto lontano dalle sue sponde.

Una delle questioni che dovranno essere approfondite riguarda sicuramente le condizioni di partenza del nostro Paese sul piano delle capacità, consistenza e mezzi del nostro sistema di Difesa concepito sulla base dell’art.11 della Costituzione secondo cui l’Italia ripudia l’idea che i conflitti possano essere risolti solamente con la guerra.

In un Paese dove la quota Pil destinata alla Difesa vera e propria, depurata cioè da tutto ciò che va specificatamente al controllo e la salvaguardia del territorio, passata dell’1% del 2008 allo 0, 82 del 2019, con una piccola risalita allo 0,92% nel 2020, è sempre stato difficile impostare un discorso non ideologico.

Questo a maggior ragione dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin che, volenti o nolenti, ci fa trovare quasi direttamente sulla linea del “fronte”.

La spesa pro capite degli italiani per le Forze armate è pari a 428 euro. Cosa che ci inserisce all’ultimo posto dell’apposita graduatoria dei principali paesi della Nato. Il bilancio Difesa prevede che circa il 60,54% sia destinato ai costi del personale, il 28,9 agli investimenti, l’8,89 al settore mantenimento e l’1,67% alle infrastrutture. Nel caso dell’Esercito, cui sono assegnati 6,378 miliardi di euro, il personale incide, invece, per il 78%, il mantenimento per il 6 e quello degli investimenti del 16%.

Dati ben lontani da quanto previsti dal  modello indicato dall’Alleanza atlantica: 50% del budget destinato al personale, il 25% al mantenimento e il restante al cosiddetto ”potenziamento / rinnovamento”.

In questa situazione, gli esperti dicono che l’ammodernamento del nostro Esercito potrebbe essere raggiunto in 43 anni, ovviamente sorvolando sul fatto che l’evoluzione tecnologica, che nel campo della Difesa e degli armamenti ha subito un’ulteriore accelerazione, condanna ad una cronica vetustà tecnologia e della logistica e, oggettivamente, riduce la capacità del nostro Esercito nel caso di interventi d’urgenza.

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