Il concetto di pace attraversa la storia dell’umanità con significati profondamente diversi a seconda del contesto culturale, religioso e ideologico.

Mentre assistiamo al prolungarsi del conflitto russo-ucraino, emerge con tutta evidenza la necessità di distinguere tra le diverse concezioni di pace che hanno da sempre arrovellato più le nostre menti che i nostri cuori: la pace secondo la Bibbia,  la pace che predica  la Chiesa  e la pace declinata col pacifismo, sempre più in voga nelle ideologie del Novecento. Tre visioni che, pur condividendo l’aspirazione a un mondo senza conflitti, divergono radicalmente nei metodi e negli obiettivi. La pace biblica non è semplicemente l’assenza di guerra, ma lo shalom ebraico: una condizione di pienezza, giustizia e armonia tra Dio, l’uomo e il creato. Nel Nuovo Testamento, Gesù si presenta come “Principe della pace”, ma la sua concezione non è quella di un pacifismo passivo. “Non sono venuto a portare la pace ma la spada”, afferma nel Vangelo di Matteo, indicando che la vera pace richiede spesso una lotta contro l’ingiustizia. La tradizione cristiana ha sempre riconosciuto la legittimità della difesa dei deboli e degli oppressi, sviluppando la dottrina della “guerra giusta” già con Sant’Agostino. È una pace che nasce dalla giustizia e può richiedere, paradossalmente, il conflitto per essere raggiunta.

La diplomazia ecclesiastica: mediazione senza neutralità morale

La Chiesa cattolica ha sviluppato nei secoli una propria diplomazia, fondata sul principio che la pace autentica deve coniugare verità e carità. I pronunciamenti papali sui conflitti contemporanei riflettono questa impostazione: condanna dell’aggressione, sostegno alle vittime, ma anche appello al dialogo e alla ricerca di soluzioni negoziate. Durante la Seconda Guerra Mondiale, Pio XII fu criticato da alcuni per non aver condannato più esplicitamente il nazismo, mentre altri lo accusarono di aver preso posizioni troppo nette. Questo dilemma illustra la tensione costante tra l’aspirazione alla pace e la necessità di non rimanere neutrali di fronte al male.

La mediazione ecclesiastica si distingue dalla diplomazia statale perché non persegue interessi geopolitici, ma cerca di applicare principi morali universali. Giovanni Paolo II durante la Guerra Fredda, Benedetto XVI di fronte ai conflitti in Iraq e Afghanistan, Francesco nel contesto ucraino: ogni pontificato ha dovuto confrontarsi con la sfida di essere costruttori di pace senza diventare complici dell’ingiustizia. La Chiesa propone una “pacificazione” che non è compromesso al ribasso, ma ricerca di soluzioni che rispettino la dignità di tutti gli attori coinvolti. Significativo è l’approccio vaticano al conflitto russo-ucraino: sostegno all’Ucraina aggredita, condanna dell’invasione, ma anche disponibilità al dialogo con Mosca. Una posizione che alcuni giudicano ambigua, ma che riflette la convinzione che la pace duratura richieda la conversione dei cuori prima che la vittoria militare.

Il pacifismo ideologico: quando la pace diventa dogma

Diverso è il pacifismo delle ideologie moderne, che spesso trasforma la pace in un valore assoluto, superiore a giustizia e libertà. Questo approccio, nato dalle tragedie del Novecento, rischia di diventare una forma di neutralismo che, di fatto, favorisce l’aggressore. Durante gli anni Trenta, l’appeasement britannico verso Hitler nasceva da un pacifismo ben intenzionato che però alimentò le ambizioni espansionistiche naziste. La “pace per i nostri tempi” promessa da Chamberlain a Monaco nel 1938 durò appena un anno.

Il pacifismo ideologico contemporaneo presenta caratteristiche simili quando equipara aggressore e aggredito, quando chiede all’Ucraina di cedere territori per “fermare l’escalation”, quando demonizza l’invio di armi difensive.

È un pacifismo che, paradossalmente, può perpetuare l’ingiustizia e incoraggiare nuove aggressioni. Come osservò George Orwell, “il pacifismo è oggettivamente pro-fascista”, perché in presenza di un aggressore determinato, il rifiuto di resistere equivale a una resa. La storia dimostra che esistono momenti in cui la pace senza giustizia non è pace, ma oppressione. La “pace” imposta dall’Unione Sovietica nell’Europa orientale dopo il 1945 fu in realtà una lunga occupazione mascherata da liberazione. Milioni di persone vissero per decenni senza libertà, sotto regimi che garantivano l’ordine pubblico ma negavano i diritti fondamentali. Analogamente, la “pace” che Putin vorrebbe imporre all’Ucraina attraverso l’annessione di territori e l’instaurazione di un governo fantoccio non sarebbe che una forma di assoggettamento.

La pace giusta nell’era dei nuovi conflitti

Il conflitto russo-ucraino ci pone di fronte alla necessità di recuperare una concezione matura di pace, che non sia né ingenuo pacifismo né bellicismo irresponsabile. La pace biblica, quella che coniuga giustizia e misericordia, offre una bussola preziosa: non ogni pace è buona pace, e non ogni guerra è ingiusta guerra. Sostenere il diritto dell’Ucraina a difendersi non contraddice l’aspirazione alla pace, ma ne rappresenta una condizione necessaria.

La mediazione ecclesiastica, con i suoi limiti e le sue contraddizioni, mantiene viva l’esigenza di cercare soluzioni che vadano oltre la logica della forza. Ma non può ignorare che, di fronte all’aggressione, la resistenza è un dovere morale prima che un diritto politico. Il pacifismo ideologico, infine, deve fare i conti con la propria responsabilità storica: ogni volta che ha prevalso la pacifismo a tutti i costi, il prezzo in termini di vite umane e libertà è stato pagato dalle vittime dell’aggressione.La vera pace non è l’assenza di conflitto, ma la presenza di giustizia. E quando la giustizia è minacciata, la pace autentica può richiedere, temporaneamente, l’uso della forza per essere ristabilita. Una lezione che la storia ci ha insegnato molte volte, ma che ogni generazione deve reimparare a proprie spese.

Michele Rutigliano

 

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