“Nulla sarà più come prima”: questa affermazione è diventata talmente diffusa ed abusata, da essersi trasformata in un luogo comune. I “luoghi comuni” sono tagliole pericolose, disseminate nei nostri discorsi, dove si infilano talvolta perfino a dispetto ed agiscono omologando il pensiero ad un’opinione diffusa e genericamente accolta dai più, per quanto possa essere poco o per nulla comprovata. A riprova del fatto che, per quanta considerazione ne abbiamo, dobbiamo vigilare sull’uso che facciamo della nostra ragione, mantenendo viva un’istanza critica sovraordinata, una forma di consapevolezza, difficile da definire.
Per chi “nulla sarà più come prima”? Per coloro che sognano il ritorno ad una sorta di paradiso perduto? Oppure per quanti sperano che, chissà come, sia almeno la pandemia a trascinarli fuori dall’inferno dell’ingiustizia che patiscono, scuotendo equilibri cristallizzati al punto di rovesciarne la prospettiva? La tendenza a tornare a ritroso sui nostri passi, per rientrare nella situazione “quo ante”, sarà più ampia e diffusa di quanto possiamo pensare oggi.
C’è una forte domanda di protezione, di rassicurazione; un’ansia pervasiva, una paura motivata dalla precarietà della situazione economica e sociale. Da lì il passo, anche per categorie sociali disagiate, a rifugiarsi nelle vecchie nicchie, scomode e consunte, ma pur già note ed abitate, può essere breve. Sfidare l’ignoto, mettersi in cammino per una terra sconosciuta e’ pur sempre una scommessa difficile da intraprendere, a meno di essere sostenuti da una grande fede nel domani, da una speranza di cui e’ difficile scorgere oggi qualche traccia.
Non ha torto Marc Augè, studioso francese della cosiddetta “post modernità” quando afferma: “I proletari non vogliono più abbattere il sistema, temono che crolli”. Insomma, la pandemia ci costringe a cambiare molti atteggiamenti consolidati, esige comportamenti inediti. Addirittura, ci ha addestrato a saper cogliere nuove opportunità, traendole, ad esempio, dal mondo della tecnologia; ha pure risvegliato sentimenti assopiti di solidarietà; ha suggerito con forza come siamo tutti entro l’orizzonte di un destino comune. Eppure, non è vero che vi sarebbe una sorta di automatismo virtuoso per cui la storia si avvierebbe, dopo una prova talmente drammatica da mutarne la rotta, almeno verso l’incipit di una stagione nuova e, se non altro, più equilibrata, fors’anche più felice.
Dipende pur sempre da noi. Quello che abbiamo vissuto in questi mesi ed, anzi, tuttora viviamo – il contagio continua ad essere devastante in molti Paesi e la loro sofferenza riguarda pure noi – può essere derubricato sul piano di una mera fattualità, magari addirittura disgraziatamente accidentale, oppure ha tutt’altro significato ed assume perfino una valenza simbolica? Ha senso richiamare quella nozione di “segni del tempo” che, dagli anni di Papa Giovanni XXIII, dal Concilio e dalla stagione immediatamente successiva, ci ha accompagnato per un buon tratto della nostra storia ed abbiamo poi progressivamente smarrito, fino a perderne le tracce come criterio di lettura e di guida nel divenire tumultuoso dei nostri giorni?
Allora il presupposto che consentiva di scrutarne i “segni” era dato dalla convinzione, più o meno consapevole, ma ben radicata nella coscienza collettiva, che il “tempo” avesse un senso, che la storia rispondesse ad un “vettore” che desse conto della sua direzione di marcia. Non a caso, approdammo nel ’68, comunque la si giudichi, a quella pretesa giovanile di una palingenesi del mondo. Poi la stessa dizione “segni del tempo” è scomparsa, non più sorretta, anzi contraddetta, da un sentimento collettivo disincantato e del tutto scettico in ordine alla nostra attitudine a “costruire” la storia, cioè circa la nostra facoltà di riconoscerne il senso o addirittura dettarne lo sviluppo, piuttosto che semplicemente registrare e subire il corso degli eventi.
E se provassimo a ricorrere a quella griglia interpretativa rappresentata dalla ricerca dei “segni del tempo”, come si diceva in quegli anni ormai lontani, il tempo della pandemia cosa avrebbe da dirci? Sicuramente un ventaglio di cose importanti, ma due – o meglio due in una – soprattutto. Ci direbbe che stiamo passando – si potrebbe dire – dal “prossimo” al “contiguo”, da colui che ci è vicino a colui che ci sta gomito a gomito.
Il contagio è un versante o forse la metafora di un tale spessore, di una tale intrecciata intensità dei rapporti interpersonali da essere del tutto inedita nella vicenda del genere umano. Ne consegue che ogni nostro gesto, ogni comportamento, prima di esaurire i suoi effetti immediati, si è ripercosso su una numerosità di persone quale difficilmente potevamo immaginare in altre epoche. Il che gli conferisce una densità di valore umano inedita.
Questo peso specifico, incredibilmente accresciuto, in termini di responsabilità, di ogni nostro atteggiamento, andrebbe studiato a fondo, anche sul piano politico, in vista di un nuovo ordinamento della polis, soprattutto in funzione di una comprensione forse inedita del valore della nostra libertà. Suggerisce, altresì, una lettura più profonda di cosa sia, cosa significhi quella “trasformazione” che rappresenta il cardine – così’ come l’hanno posto Stefano Zamagni  e il nostro Manifesto ( CLICCA QUI ).
Significa soltanto “trasformazione” dei contenuti programmatici e degli indirizzi operativi dell’azione politica o piuttosto “trasformazione” della politica  e dei suoi attori? Cioè del livello e del ruolo, del “posizionamento” nuovo che alla politica va riconosciuto nella vita collettiva e personale di ognuno, dentro contesti civili che, per essere sostenibili e non implodere su se stessi, attendono di essere accompagnati verso quella “società del valore umano” di cui Aldo Moro ci ha detto fin dai suoi scritti giovanili.
Domenico Galbiati

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