La Storia è materia delicata: prima di tutto va rispettata. Guai dimenticarla e guai piegarla agli interessi del momento. Distorcere la Storia ed usarla come una clava contro i presunti nemici di turno è la cosa più meschina che si possa fare; una violenza nei confronti delle persone che quella Storia hanno vissuto e spesso sofferto, anche per garantire chi è venuto dopo.

Il discorso di Putin alla Parata della Vittoria del 9 maggio, da questo punto di vista, non può che suscitare tristezza, prima che indignazione. La Parata celebra un momento glorioso nella Storia russa, ma anche europea: la vittoria contro l’invasione della Russia da parte della Germania nazista. La Storia dice che – fallita l’iniziale strategia che aveva ispirato il Patto di non belligeranza “Molotov-Ribbentrop” del 1939 – il contributo sovietico alla sconfitta di Hitler in Europa è stato fondamentale, al pari dell’intervento militare degli Stati Uniti. E di questo fatto storico tutti gli europei devono conservare una memoria di riconoscenza e rispetto.
Ed invece, Putin – come era ovvio – ha usato questa ricorrenza per giustificare la brutale e criminale aggressione all’Ucraina, con una fredda retorica “anti europea” ed “anti occidentale”. Lo ha fatto senza proclamare alcunché di nuovo, a proposito della guerra in corso. Gli analisti, in netta prevalenza, interpretano questa auto limitazione in senso “positivo” e come segnale di sostanziale debolezza. Forse, fallita la “guerra lampo” per effetto della imprevista Resistenza Ucraina, Putin si sente nella necessità di trovare uno sbocco “onorevole” per uscire dall’angolo nel quale si è infine ritrovato. Speriamo che sia così. Difficile fare previsioni.
Alcune cose sono tuttavia sicure. Primo. Putin continua a bombardare città e villaggi ucraini. Senza alcun rispetto delle minime regole di umanità. Secondo. Se l’Occidente democratico non avesse da subito supportato l’Ucraina e la sua Resistenza, sul piano politico e anche militare, la Parata sarebbe avvenuta a Kiev. E l’Ucraina sarebbe scomparsa come Paese sovrano e indipendente. Terzo. In tal caso, il “nuovo Muro di Berlino” che Puntin sogna sarebbe stato edificato molto più a Ovest. E la sicurezza di altre Nazioni ex sovietiche, oggi indipendenti e pienamente partecipi del contesto occidentale ed europeo, molto più a rischio. Quarto. La Pace sarebbe stata ancor più lontana. Perché più gli aggressori trovano campo libero, più le loro mire imperialiste crescono. E più cresce il rischio di una estensione del conflitto. Anche in questo caso, la Storia europea dovrebbe insegnare qualcosa.
Già, l’Europa. Essa non ha confini, per sua natura. Come tutti i sogni. E non per “volontà imperialista”, ma per precisa concezione della universalità dei diritti e dei valori che la animano. Essa ha una sua “costituzione materiale”, plurale fin che si vuole, ma abbastanza identificabile. Che non sopporta limitazioni fondate sulla violenza e sulla sopraffazione.
L’Europa – che celebra in questi giorni la ricorrenza della prima proposta Schumann della CECA – non ricerca “zone di influenza”, ma spazi di cooperazione e di relazione. Chiedere che essa rompa il suo legame con gli Stati Uniti è fuori dalla Storia. Immaginare che essa recuperi una sua più forte identità ed anche una sua più marcata e peculiare linea di politica estera e di difesa, invece, è essenziale. Ma questa prospettiva in tanto sarà realizzabile, in quanto l’Europa dimostri forza politica, unità interna, affidabilità, credibilità. Ed anche coraggiosa coscienza dei propri doveri (umanitari, politico-diplomatici e militari) difronte alla guerra di Putin contro l’Ucraina.
Il ruolo dell’Europa non crescerà nella suggestione di una improbabile “terzieta”, ma solo sul piano, certo difficile, di una autonoma e leale interpretazione della scelta atlantica“, capace di rigenerare il “carisma della democrazia” che molti errori geo politici e militari degli Stati Uniti (assieme ad una “non gestione” dei processi di globalizzazione) hanno compromesso in questi ultimi decenni.
Compete all’Europa dimostrare che non è il “ventre molle” dell’Occidente democratico. Ed, assieme, che non è semplicemente un “satellite” degli Stati Uniti. Ma un vero “alleato adulto” dell’America, capace di testimoniare quel “soft power” di intelligenza politica difronte alle complessità – che gli USA faticano a coltivare da decenni – senza per questo incrinare la coesione del Mondo Occidentale e Democratico. Il quale deve rigenerarsi ed evolvere, non frammentarsi difronte alle sfide dei nuovi attori globali e difronte alle autocrazie. La Pace passa essenzialmente da qui.
Di certo non da un atteggiamento di “equidistanza” e di arrendevole subalternità alla “democratura” imperialista di Putin. I “putinisti” nostrani – pagati o meno che essi siano da Mosca – non solo tradiscono i valori della Costituzione Italiana e dello Spirito europeo – ma allontanano la prospettiva stessa della Pace.
Per questa ragione, tra l’altro, il viaggio di Mario Draghi a Washington può essere di capitale importanza. Il nostro Premier ha fatto bene a concentrarsi su questo passaggio, piuttosto che prestarsi alla triste e scontata liturgia delle polemiche interne alla sua maggioranza, entro la quale non sempre pare esista piena coscienza del momento drammatico che stiamo attraversando.
Lorenzo Dellai

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