L’anniversario del Codice di Camaldoli – l’ottantesimo, ricorrenza già di per sé significativa, a maggior ragione essendo il primo da quando è tornata al potere una destra nostalgica del regime ottuso che in quei giorni rovinava a terra, sepolto dalle macerie materiali e morali di cui aveva disseminato l’Italia – ha richiamato l’ attenzione di osservatori di varia estrazione sull’ umanesimo. Si fa presto a dire “umanesimo”, ma di cosa si tratta esattamente?
C’è un solo umanesimo o ce n’è più d’uno?

Non è forse legittimo che dell’ umanesimo, cioè della coscienza di ciò che è più autenticamente “umano”, ogni tradizione culturale ne dica a suo modo, secondo l’antropologia sottesa, in ragione della auto-comprensione che ciascuna elabora? A grandi linee, c’è un umanesimo focalizzato su una declinazione individualista del soggetto ed un altro umanesimo che predilige, rispetto all’autoreferenzialità dell’individuo, la dimensione relazionale della persona.
C’è un umanesimo che stabilisce i valori che lo connotano derivandoli da una convenzione sociale, pattuita su un principio di uguaglianza, e ce n’è un altro “ontologicamente fondato”. Che assume, cioè, l’ “umano” in quanto valore originario, incondizionato ed irrevocabile, lontano da ogni tentazione riduzionista che ne disarticoli l’identità univoca.

C’è anche l’umanesimo della “decostruzione” che conclude ad una china nichilista, interpretando l’uomo, tutt’al più, come un nodo attraversato da un flusso ininterrotto di sensazioni, di pensieri e di umori e di sentimenti, di desideri e di bisogni, di domande, che mai si coagulano pienamente nella consistenza del soggetto.

L’umanesimo cui si ispira il Codice di Camaldoli è di natura “ontologica” ed è questo il lascito che rende il Convegno, da cui nacque nel ‘43, perennemente attuale, cosicché anche oggi non si tratta solo di ricordare e celebrare, ma piuttosto di attingere ancora dal patrimonio ideale e di pensiero che rappresenta.

Domenico Galbiati

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