Con gli avvenimenti del mese di aprile si è aperta la fase più delicata della controversia interna alla nostra classe politica, aperta nel 2018, che si è inserita nella grande crisi europea.

Ovviamente, non si tratta qui della fine della pandemia, semplice epifenomeno incidentale (anche se decisivo) nei processi di ristrutturazione della classe politica e di riorganizzazione dello stato. Processi gestiti entrambi – in questo momento – a mano libera dall’esecutivo.

Siamo davanti ad una soluzione che ha un respiro ampio: riguarda la definizione delle linee di rinnovo dell’apparato dello stato e la distribuzione dei poteri relativi fra l’esecutivo e la sua maggioranza e quella parte della vecchia classe dirigente che uscirà vincente, a scapito di quei settori che non riusciranno ad integrarsi nella nuova economia.

Che sia la fase finale lo dimostra la coincidenza di tre indizi concorrenti: (i) l’attuazione di misure demagogiche, (ii) l’accordo già scontato con l’UE, malamente mascherato da apparenti contrasti e/o negoziati, (iii) la contestuale nomina dei gestori del patrimonio pubblico.

Tutto nasce dalla necessità della classe politica oggi al governo di trovare uno sbocco ed una stabilizzazione ad una classe dirigente nuova che nasce, è scelta, proviene da essa stessa.

Un piccolo passo indietro cronologico serve a cogliere la profondità dei processi in corso in queste settimane.

La grande riorganizzazione della amministrazione della cosa pubblica degli anni ’90 ispirata al principio di sussidiarietà e al nuovo regionalismo (leggi Bassanini e riforma del Titolo V) mette al sicuro la gestione delle aziende pubbliche soprattutto i monopoli e le municipalizzate, aprendo invece alla svendita all’estero di una fetta considerevole del settore privato, soprattutto quello legato al settore immobiliare e chiudendo così la stagione delle grandi privatizzazioni di alcuni settori della grande industria pubblica (telecomunicazioni, siderurgico, autostrade, ecc.).

Tutto l’arco storico tra il 1992 e il 2011 – da Ciampi a Monti – può essere letto unitariamente come una fase in cui il capitale italiano si è fortemente integrato in una struttura internazionale mentre lo Stato – parallelamente – diventava un Ente nuovo. Tutti i segmenti sociali sono coinvolti: le professioni, le attività private protette, il ceto medio e le sedi della sua formazione.

Si è trattato però anche della parallela distruzione della struttura distribuita del capitale privato, soprattutto costituita da beni immobiliari.

Arriviamo così agli eventi più recenti.

Già dal 2017 era stata preannunciata una forte tensione internazionale determinata da una carenza di liquidità nell’euro zona. Questa tensione viene a coincidere – in Italia – con una problematica “di regime”: un conflitto non risolto, interno alla sua classe dirigente.

L’epifenomeno clinico: la storia racconterà come esso è entrato in questo momento storico e come fu gestito in un modo così scopertamente politico, quasi un’azione concertata di media e di fattori economici.

In ogni caso, appare ormai evidente come l’epifenomeno clinico si sia caratterizzato come elemento funzionale alla chiusura di una lotta di potere interna. La storia evidenzierà i vari passaggi attraverso cui la crisi politica detta – in questi mesi – le scelte della condotta epidemica.

L’esecutivo assume direttamente la gestione dello stato – al riparo da ogni tensione dialettica (Parlamento, opposizione, stessa magistratura che stranamente fa un passo indietro o sceglie addirittura una posizione di mero supporto all’esecutivo).

La componente qualunquista della società – prostrata sociopsicologicamente dal pericolo minacciato – non percepisce la natura nuova delle condizioni di contesto (che spingono verso un appannamento di tutte le tradizionali garanzie democratiche). Queste condizioni particolarissime stanno permettendo al governo di procedere alla fase economico-politica e sociale del progetto in corso: la fase finale della ristrutturazione del potere.

Per agire, l’esecutivo deve avere tre legittimazioni: la perdurante emergenza nazionale, la rapidità degli strumenti di intervento, il sostegno economico alle classi povere.

L’azione di governo deve svolgersi entro ben precisi limiti: non può battere moneta, non può accedere al credito liberamente, non ha risorse economiche di riserva, ha perso circa il 90 % del suo valore patrimoniale, sia mobiliare che immobiliare, ha un’economia a “crescita zero” che – per di più – nei due mesi di epidemia ha perso circa 5 punti del pil nazionale, passando ad una recessione aperta.

La decisione che prende l’esecutivo ha tre effetti sull’economia:

  • una parte economica resterà attiva e avrà molta liquidità per molto tempo,
  • una parte sarà coperta dalla elargizione di danaro pubblico,
  • una parte dovrà usare le sue riserve e indebitarsi.

Grande distribuzione, settore farmacologico e parasanitario, alimentare e prima necessita (settori a forte presenza di capitale straniero): le industrie che riescono a giustificare la loro presenza come necessarie faranno grandi profitti.

Avranno invece una grossa recessione tutta la classe media e i redditi immobiliari.

I pieni poteri e il consenso di Bruxelles permettono all’esecutivo di uscire dall’empasse di una finanziaria in contrasto con le promesse elettorali della attuale maggioranza. Inoltre, gli hanno consentito di sbloccare le riconferme nei posti dirigenziali della vecchia classe di manager pubblici, e quindi di risolvere lo scontro tra i partiti della maggioranza e senza spartizioni con l’opposizione, mettendo al sicuro tutta la struttura del capitale pubblico, salvando le situazioni in bilico. Gli permettono anche di sbarazzarsi della fascia media del capitale privato che si trova – a causa della chiusura epidemiologica – nella stessa crisi che accomuna tutta la classe media oggi in difficoltà.

L’esecutivo predispone intanto una legislazione straordinaria che deve soprattutto far vedere che lo stato è in grado di elargire e tutelare. E quindi prevenire il dissenso aperto delle fasce più deboli.

Ma il segno distintivo – in termini di politica economica – di questa legislazione emergenziale è di un’evidenza solare: l’esecutivo organizza il controllo da parte dello stato di tutti i settori economici. Il procedimento di far anticipare da un istituto di credito somme alle aziende con una garanzia fidejussoria attraverso la compagnia assicurativa di stato permetterà di controllare tutti i settori economici e decidere la sopravvivenza di ogni singola azienda.

Il famoso decreto liquidità mette a disposizione un potenziale di 400 miliardi di euro così ripartiti :

  • 200 miliardi per l’economia di mercato interno,
  • 200 miliardi per finanziare l’export import.

Dei primi 200 miliardi la ripartizione è la seguente:

  • 170 miliardi in sostanza alle imprese pubbliche di fatto,
  • 30 vanno a imprese o attività sottoposte a Iva del mercato interno.

Il finanziamento è bancario, oneroso, con riserva di perfezionamento entro il 31 dicembre 2020. Devono essere restituiti entro 5 anni ma possono essere restituiti prima. Durante il finanziamento non possono essere fatti licenziamenti e dati dividendi ai soci. La Sace può ritirare la fidejussione in caso di gestione difforme dalle condizioni di concessione. Vengono differite le riforme delle società. La fidejussione ha un costo.

Colpisce il rapporto tra finanziamento al mercato interno del ceto medio e quello al capitale misto (1 a 5).

Sull’intero potenziale dei 400 miliardi, solo 30 saranno al mercato interno: meno del 10 % e – per di più – a condizioni che per molti si riveleranno inaccettabili.

Il settore immobiliare verrà condizionato proprio da questo ulteriore impossessamento delle aziende piccole e medie private su scala nazionale che porterà alla depressione del mercato interno e alla contrazione del mercato immobiliare sottraendone reddito.

Si ricorda in proposito che il mercato immobiliare aveva avuto una leggera ripresa dopo il 30 luglio 2017, determinata dalla possibilità di immissione nel mercato di liquido per la cessione dei crediti di imposta sugli investimenti. Questa ripresa dà prova che solo la riduzione del prelievo fiscale può agevolare la proprietà immobiliare e rilanciare il settore dell’edilizia.

Da sempre, in Italia, la ripresa del mercato interno è strettamente intrecciata con gli andamenti del settore immobiliare, oltre che con altri (anch’essi oggi a rischio): agricolo, turistico, commercio al dettaglio.

I decreti che sono stati emanati non prevedono alcuna soluzione agevolata per il settore immobiliare.

In conclusione, la gestione della epidemia come sacrificio programmato di tutte le attività non tutelate da scelte di stato ha compresso tutti i conduttori abitativi (o molti di essi) che stanno chiedendo periodi di sospensione dei canoni mediamente di 6 mesi (il che vuol dire in pratica il dimezzamento della rendita immobiliare per l’anno).

Per il non abitativo il rischio – per il proprietario – della perdita del contratto è superiore alla perdita di una parte della locazione.

Come si vede l’intero mercato è a rischio. Soprattutto se si considera che sono previste ulteriori contrazioni: pressione di accesso al patrimonio pubblico, coabitazione di anziani per acquisire redditi, morosità irrecuperabili.

In compenso saranno salvate le aziende del capitale misto a cui andranno le maggiori contribuzione e verrà data di preferenza la fidejussione.

Concludo parafrasando una frase di Benedetto XIV: “se un giorno i poveri ci chiedessero conto delle nostre carrozze, argenti e palazzi che cosa dovremmo dire loro?

Signor Presidente del Consiglio, ci pensi, cosa risponderebbe a tutti quelli che potrebbero chiederle conto di cosa ha fatto dei soldi dati in questo modo, quando la maggioranza dei suoi cittadini saranno sulla lista di povertà?

Ivo Amendolaggine 

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