Aristotele e, con lui, Tommaso ci hanno insegnato a distinguere sostanza ed accidenti.
Ciò che una cosa è in sé e le consente di vivere in autonomia dalle determinazioni seconde che non ne mutano l’essenza, ma ne infiorano forma e fisionomia. Anche la politica ha bisogno di questa distinzione. Si tratta, cioè, di mettere in chiaro quali siano i “fondamentali” della politica, cioè le basi ed i criteri che presiedono alla struttura portante della sua architettura che restano fermi nel tempo e quali i profili contingenti, le politiche che, di volta in volta, vengono assunte nel decorrere e nel mutare degli eventi.
Quando vengono feriti e compromessi i “fondamentali” della politica si genera una catena in cui gli errori si inanellano gli uni negli altri secondo una sequenza difficile da spezzare ed, anzi, capace, piuttosto, di auto-alimentarsi. Ancora ai giorni nostri soffriamo di due vulnus recati ai criteri basilari dell’azione politica, alla metà degli anni novanta, quando, sospinta dal vento di Tangentopoli, la foga irruente della catarsi nuovista a tutti i costi, ci ha fatto cadere nell’equivoco della semplificazione.
Abbiamo creduto che, grazie ai sistemi elettorali “maggioritari”, avremmo finalmente preso il largo, a vele spiegate, verso il compimento, finalmente, della nostra democrazia difficile nelle forme della “democrazia dell’ alternanza”.
Ci siamo, al contrario, incaprettati da soli nei lacci di quella “democrazia dell’alternatività”, che è tutt’altra cosa e, non a caso, si è avvitata ed ancora si avvita su di sé secondo un crescendo di reciproca delegittimazione tra destra e sinistra. A conferma del fatto che un conto è la politica, vissuta sul campo e sulla pelle delle persone, altra cosa la politologia. Dalla quale può succedere che si traggano nozioni che, per quanto sofisticate – calate in quel particolare contesto storico che non le esige, né le sopporta – danno luogo a pericolosi processi di eterogenesi dei fini.
La seconda ferita è consistita nel credere – emblematico il caso del PD – che si potessero fondere impunemente in uno, forze che rappresentano la declinazione politica di culture differenti. Senza avvedersi che, in tal modo, si accedeva, di fatto, a forme da “comitato elettorale”, similari ai partiti d’oltre oceano, ma del tutto dissonanti dalla nostra tradizione e, dunque, insipide e sterili, incapaci di accendere i cuori e le menti.
Ancora una volta il “nuovismo” ci ha accecati e ci ha impedito di considerare quanto le culture politiche siano radicate, ciascuna nel proprio humus e quanto persistano nel tempo, al di là di ogni manipolazione cui le si sottoponga. Cosicché le loro radici, divelte dal terreno in cui sono cresciute, seccano ancor prima di poter essere trapiantate altrove. Tutto ciò a premessa di una considerazione e di un avvertimento che vale per i nostri giorni.
La necessità di dar luogo ad una “alternativa nel sistema” che consenta di sottrarci all’egemonia della destra, non deve offuscare l’urgenza di una “alternativa di sistema” che permetta di portare l’Italia fuori dalla sgangherata gabbia della polarizzazione, per ridarle respiro, protagonismo e voce.
Se cambiasse la maggioranza, cambierebbero indirizzi e contenuti dell’azione politica e non sarebbe cosa da poco, eppure il quadro complessivo del nostro sistema politico non si libererebbe dei ceppi che lo ingarbugliano in una rissa senza fine e senza costrutto.
Ancora una volta, appare evidente come il nostro Paese abbia bisogno di una proposta politica differente e nuova, coraggiosa e capace di sottrarsi ad ogni omologazione al sistema così come si pone oggi, a cominciare dal cosiddetto “campo largo”.
Domenico Galbiati