Vent’anni di rabbia”: così la recente pubblicazione di Carlo Invernizzi-Accetti definisce i quasi venticinque anni del secolo XXI. All’ ”Ira” aveva già dedicato un saggio il filosofo tedesco Peter Sloterdijk nel 2006: “Zorn und Zeit” – “Ira e tempo” – che, nel titolo, faceva il verso ironico a “Sein und Zeit”, il più famoso “Essere e tempo” di Martin Heidegger.
Ma non si trattava solo di ironia. Al centro del filosofare non sta più per Sloterdijk l’onto-antropologia filosofica del “Da-sein” – l’Esser-ci “, bensì l’antropologia concreta delle passioni, delle emozioni, dell’ira.
Sotto la categoria della “rabbia” Invernizzi-Accetti raccoglie i fenomeni apparentemente più diversi e divergenti: il Movimento No-global d’inizio Anni 2000, l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, il No al referendum sul Trattato costituzionale europeo, i roghi nelle banlieu francesi, il Vaffa-Day di Beppe Grillo, il movimento spagnolo degli Indignados, Occupy Wall Street, l’Oxi greco – il No – , il voto per la Brexit, l’elezione di Donald Trump, #MeToo, #BlackLivesMatter, i discorsi di Greta Thunberg, i Gilets jaunes francesi e l’assalto al Campidoglio americano del 6 gennaio 2021…
La rabbia è dei perdenti della globalizzazione?
Il filo che tiene insieme questi eventi non è principalmente l’impoverimento socio-economico, eventualmente imputato alla globalizzazione, come fanno il Censis e molti altri. È piuttosto vasta, in effetti, la letteratura socio-politica sui “losers of the globalisation”, i perdenti della globalizzazione.
Per Invernizzi-Accetti la causa prima sarebbe un’altra: ciò che manca o è venuto meno è “il riconoscimento” del Sé da parte di ogni altro Sé. Paradossalmente l’affermazione dello Stato liberale, nel quale tutti sono riconosciuti come eguali, ha prodotto un’inflazione di eguaglianza, dentro la quale nessuno si sente davvero riconosciuto nella propria originalità e identità.
Così Fukuyama. Così, se è vero che la rabbia è suscitata dal “thymos” – parola letterario-filosofica greca, che Fukuyama traduce molto liberamente come “desiderio di riconoscimento da parte degli altri” – e che le società liberal-democratiche contemporanee acuiscono il “thymos”, è logico che in esse gli individui e i gruppi diventino particolarmente sospinti alla rabbia.
Paradossalmente le società liberali nel loro compiersi generano rabbia. Per uscire dal vortice della quale, visto che si tratta di una passione autopoietica, Invernizzi-Accetti suggerisce la ricetta hegeliana del ritorno alla “lotta per il riconoscimento”: nella lotta mortale con l’altro viene riconosciuto il tuo valore.
Perciò la soluzione è “la partecipazione attiva a un conflitto strutturato”, “una lotta contro una parte avversa”. È, insomma, il ritorno alla politica, che una volta era fatta dai partiti, dai sindacati, dai corpi intermedi.
La paura e la dissonanza cognitiva
Tuttavia, questa conclusione ci riporta alla seguente domanda: perché i partiti/sindacati/corpi intermedi/volontariato non sono più il soggetto strutturato del conflitto? La risposta: perché quei contesti collettivi hanno perduto la propria struttura, si sono smarriti.
La struttura è costituita, in primo luogo, da una visione, da una concezione, da un’interpretazione del mondo e, perciò, da una capacità di dare senso. La crisi dei partiti e dei loro simili è, in primo luogo, una crisi dell’offerta teoretica di senso.
E perciò gli individui sono vittime di una dissonanza cognitiva. Hanno pensato/pensano contemporaneamente due mondi, due storie e pertanto due collocazioni di senso differenti e contraddittorie: il mondo-storia che c’era/c’è e quello che sta arrivando.
Il prodotto mentale di una simile alienazione/dissonanza cognitiva non è solo la rabbia, è anche la depressione. Se la rabbia spinge alla mobilitazione collettiva di minoranze, ancorché puramente reattiva e senza strategia, la depressione porta le maggioranze al silenzio e alla fuga. Così “gli arrabbiati” vanno in piazza e alle urne, i depressi si astengono.
Tornare a interpretare il mondo
Ora, se la causa ultima della rabbia, che si è espressa in questi anni nei movimenti populisti di sinistra e di destra, sta nel crollo nel crollo delle visioni collettive ottocento-novecentesche del mondo – una crisi teoretica – non ce la possiamo cavare semplicemente con l’appello a ricostruire le relazioni, passando dallo “sciame” di individui al “Noi” collettivo.
Appello prediletto di parte cattolica, quando denuncia il mancato riconoscimento reciproco, la caduta delle relazioni, l’atomizzazione degli individui, prodotta dall’individualismo liberale.
Ma, anche al contrario di quanto suggeriva Marx nella sua Tesi XI su Feurbach, il primo e fondamentale sforzo deve/dovrebbe essere di nuovo quello intellettuale dell’interpretazione del mondo e del tempo storico presente, se lo si volesse davvero trasformare.
Occorre realisticamente prendere atto che il clima politico-culturale attuale non è favorevole a questo metodo. E che, perciò, occorre andare contro corrente. Se nel mondo sono accesi focolai di guerra e la nostra Presidente del Consiglio va a collocarsi in una giuria della boxe femminile per un dibattito surreale sul testosterone olimpico…
Se, a cinquant’anni dalle stragi di fascismo e di mafia, Paolo Bolognesi, presidente dell’Associazione dei familiari delle vittime della strage di Bologna, imputa al governo presente un legame/complicità con quella stagione, portandosi dietro l’intera opposizione…
Se i mass-media ampliano pedissequamente tale dibattito, mettendosi al servizio di correnti politiche, invece che aprire gli occhi dei lettori sul mondo che cambia, allora, sì, diventa difficile ricostruire ambiti di conoscenza del mondo e contesti di senso per l’azione collettiva.
E, tuttavia, sarebbe sterile una lamentazione moralistica attorno a questa condizione del Paese. Ciascuno, a partire dal proprio ruolo e dalle proprie responsabilità, deve continuare a cercare e a dire la verità sul mondo. Nec ridere nec lugere, sed intelligere! Se c’è un senso, se c’è una salvezza, è così che si devono cercare.
Giovanni Cominelli