La crisi sociale ed economica innescata dall’emergenza sanitaria mondiale dimostra la violenza delle disuguaglianze sociali e la necessità di cambiare il sistema economico.

Nel marzo 2020, mentre la BCE si è mostrata convintamente europeista, la politica, sempre alla ricerca di una propria credibilità, non ha proposto un coinvolgimento della BCE in una visione più giusta della società di contrasto alle disuguaglianze inter-generazionali. La BCE avrebbe potuto fare lo stesso in passato per aiutare i governi a combattere la disoccupazione e altre piaghe sociali, invece di insistere unicamente affinché si riducessero i livelli di deficit pubblico.

Già Mario Draghi, da Presidente della BCE durante una conferenza stampa del 2014 a Francoforte, dichiarò che la Banca Centrale non può mai tecnicamente finire i soldi e che ha ampie risorse per far fronte a tutte le emergenze: “Sostenere questo governo significa condividere l’irreversibilità della scelta dell’euro, significa condividere la prospettiva di un’Unione Europea sempre più integrata che approderà a un bilancio pubblico comune capace di sostenere i Paesi nei periodi di recessione. Gli Stati nazionali rimangono il riferimento dei nostri cittadini, ma nelle aree definite dalla loro debolezza cedono sovranità nazionale per acquistare sovranità condivisa”.

Una misura economica di successo come la Social Security negli Stati Uniti, intesa da Roosevelt per proteggere gli statunitensi “dalla culla alla tomba”, trasse milioni di persone fuori dalla povertà ma fu spesso soggetta ad attacchi politici da destra e sinistra. L’errore di Roosevelt fu legare il pagamento dei sussidi ad una tassa sui salari per mostrare la capacità di autosostentamento del programma.

I calcoli tradizionali dicono che non c’è stato un restringimento della classe media. E’ aumentata la distanza dai ricchi, il ceto impiegatizio si è impoverito; la divaricazione si è accentuata soprattutto per effetto dei benefici di rendita ed ereditari, piuttosto che dei risparmi.

Yanis Varoufakis, ex ministro delle finanze greco e ora parlamentare con il partito da lui stesso fondato Μερα25, propone che ogni cittadino abbia un conto aperto presso la banca centrale sin dalla nascita, che chiama Personal Capital,  diviso in tre diversi fondi, che nomina rispettivamente accumulazione, eredità  e dividendo: lo stato apre al neonato a un fondo di  eredità e accredita su quel fondo una considerevole somma di denaro, la stessa per tutti i neonati.

L’economista greco rassicura che il Personal Capital “eredità” sarà il fondo più illiquido dei tre e che, per poterlo utilizzare, bisogna superare una soglia di età. Quindi, per i più giovani, provenienti da famiglie economicamente disagiate, una certa libertà di spesa sarebbe garantita dal “dividendo” PerCap, in cui la banca centrale accredita una somma mensile proporzionale all’età del correntista. Solo in questo caso il finanziamento arriverebbe dagli introiti delle tasse alle grandi aziende. Questo dividendo, immaginato da Varoufakis, rappresenta un compenso ai cittadini per la loro parziale titolarità della società a cui partecipano. Un dividendo, che ognuno riceve come comproprietario dello stock di capitale prodotto collettivamente.

La proposta di Varoufakis permetterebbe di destinare le somme ai giovani cittadini europei, pur vincolando, allo stesso tempo, i fondi erogati per scopi tassativi: studio, formazione professionale, progetti imprenditoriali etc., al fine di svincolare la proposta dalle critiche classiche che vogliono la sinistra eterno Robin Hood dei ricchi.

Sulla stessa prospettiva di approccio ad una visione programmatica di rinnovamento sociale, si pone il tema dell’aliquota societaria nei paesi Ocse nel 2020, che è combinazione tassi sovranazionali e nazionali: secondo la proposta di Joe Biden dovrebbe essere del 32%: oggi è del 30% in Australia, del 29% in Germania, del 27% in Italia, del 26% in Francia, del 25% negli Usa a livello attuale, del 24% in Lussemburgo, del 15% nel Regno Unito e del 12% in Irlanda. Proprio, la riforma della tassazione societaria annunciata dall’amministrazione Biden può essere l’occasione per rilanciare un programma di cooperazione internazionale, indispensabile per tassare i profitti delle multinazionali. Trovare un accordo resta, però, complesso.

La nuova amministrazione americana potrà costituire, se continuerà nel suo iter superando i contrasti politici interni, l’occasione per rilanciare quella cooperazione internazionale, senza la quale è pressoché impossibile tassare i profitti delle multinazionali, che hanno continuato a crescere, anche in fase di pandemia, pagando spesso pochissime o nessuna imposta.

Va assolutamente contrastata la concorrenza al ribasso internazionale, che si traduce sempre più spesso nel sacrifici dei livelli salariali e delle tutele giuslavoritiche. Infatti, come noto, aliquote più elevate in un paese, rispetto ad altri, aumentano gli incentivi a spostare attività e base imponibile in paesi a più bassa aliquota: il fenomeno è denominato profit shifting. Per evitarlo, dovrebbe intervenire l’altra parte della riforma annunciata dal Presidente degli USA: da un lato, si apportano sostanziali modifiche al sistema di tassazione internazionale introdotto con la riforma Trump; dall’altro, si afferma espressamente la necessità di un coordinamento internazionale.

Tra i principali profili di tali complesse proposte, vi è l’aumento della aliquota di imposizione federale societaria dal 21 per cento al 28 per cento. Un livello comunque inferiore al 35 per cento vigente prima della riforma Trump, ma tale da riportare gli Stati Uniti tra i paesi OECD-OCSE con tassazione più elevata.

La proposta di Letta

La tesi di Enrico Letta di una tassazione su eredità e patrimoni oltre i 5 milioni di euro per finanziare 10mila euro di dote a circa 280mila giovani italiani all’anno presenta un fine giusto ma mezzi sbagliati. La verità è che il problema non è tanto la dimensione di una classe media ma capire come è cambiata la sua composizione e se ha perso in mobilità sociale.

Il segretario DEM è stato subito liquidato dal Premier Draghi mediante l’allusione ad una teoria economica – l’equazione di Barro-Ricardo – secondo la quale i cittadini incorporano nel loro personale vincolo di bilancio intertemporale le scelte di tassazione dello stato per ripagare il debito pubblico.

La proposta non è inserita in uno scenario di stampo europeistico, perché sposta un dibattito su un tema che non trova oggi coesione a livello europeo,  e si fonda su un progetto politicamente a rischio di insuccesso. La storia dei nostri alleati atlantici ce lo dimostra. Letta non ha fatto leva sulla coesione europea per sostenere convintamente una proposta nobile come quella di conferire ai giovani italiani, cittadini europei, una quota di 10mila euro per renderli potenzialmente indipendenti nelle scelte dei propri studi, autonomi nel perseguimento dei loro progetti e dei loro sogni per il futuro.

In presenza di una mobilità intergenerazionale bassissima, una tale misura dovrebbe permettere ad un giovane, che proviene da una famiglia a basso reddito, di iscriversi all’università serenamente al posto di lavorare, magari sottopagato e senza contratto e senza assicurazioni sociali.

Il dibattito pubblico italiano ha ripreso a stagnarsi su un vecchio approccio alla gestione delle finanze pubbliche. Questa visione considera lo Stato come un’azienda che, per sopravvivere, deve generare per lo meno un pareggio di bilancio. Da qui, la necessità per ogni costo di essere coperto da un ricavo: ogni spesa addizionale va finanziata con un aumento delle tasse.

La trasmissione degli averi tra le generazioni è meccanismo essenziale dell’ordine sociale e domina il processo storico sotto tutte le latitudini.

Le due logiche – libertà assoluta e vincoli familiari – producono uno strano cortocircuito, giacché il proprietario è libero di sperperare i suoi beni al gioco d’azzardo ma, se effettua delle donazioni, queste saranno comunque computate nell’asse ereditario.

Letta non è certo un ingenuo e, come fa da tempo, prova a riposizionare il Pd un po’ più a sinistra, su un tema delicatissimo. Non lo fa, però, dentro il partito o nel tessuto vivo della società. Neppure chiede al partito di farlo in Parlamento. Ma solleva il tema nella sfera mediatica, osserva il posizionamento degli avversari interni ed esterni e decide come proseguire. La sinistra Pd non pare critica verso questa (pre)tattica: per una volta, il Pd si posiziona sul terreno economico-sociale con nettezza per la redistribuzione, vale la pena sostenerlo. Ma, come detto, il modo conta. Anzi, fa la differenza.

I media si nutrono di politicismo, osservano la realtà con le categorie della politica e ne adottano le categorie concettuali e i quadri di senso. Sono più interessati agli schieramenti che ai contenuti, alle alleanze, che le proposte possono creare, più che al loro merito intrinseco.

Il politicismo ha importanti conseguenze. Anzitutto, sminuisce la trattazione delle politiche pubbliche e le subordina alla politica. L’analisi delle politiche, nei loro dettagli e nelle implicazioni tecniche, è così affidato alle dichiarazioni dei leader politici. Si lascia il palcoscenico ai politici generalisti, mentre gli esperti, anche se di parte, hanno pochissimo spazio: i discorsi di contenuto, quando ci sono, durano lo spazio di un mattino.

Il dibattito pubblico sulla proposta di Letta, infatti, si è affievolito in una settimana o poco più. Il cosiddetto «teatrino della politica» ha qui le sue radici: i media sono più realisti del re e filtrano la «notiziabilità» attraverso la logica amico/nemico. Letta sta giocando questa partita: sa che, per fare spazio alle proposte, le deve politicizzare, mostrandone la rilevanza nel gioco politico più generale. In questo caso, come in altri, marcando la distanza da Salvini («anche se siamo al Governo insieme, siamo diversi») e dalle correnti filo- centriste («io faccio il leader di un partito di sinistra»).

In questo modo, però, i quadri generali prevalgono sul merito degli argomenti, le identificazioni emotive oscurano le riflessioni e il dibattito pubblico. Il rischio è quello di bruciare la proposta e di non lavorare, con metodo e pazienza, all’agenda politica per il post-Draghi.

Il vantaggio può essere quella di riuscire a portare la proposta dentro la negoziazione immediata, utilizzandola come testa di ponte. Ma la posta in gioco, in questo caso, è duplice: la riforma complessiva della fiscalità e il sostegno ai giovani. Aspetto, quest’ultimo, su cui Letta insiste da tempo.

L’esito della eventuale negoziazione con Mario Draghi potrebbe quindi finire con una rinuncia al primo per ottenere in cambio il secondo. Anche perché è sui giovani che Letta potrà avere più facilmente il consenso interno del partito, che ha da tempo rinunciato a fare della fiscalità un tema identitario. A prescindere dall’esito, un punto a sfavore della discussione pubblica a vantaggio della mediatizzazione della politica.

 La ricomposizione della classe media

La ricomposizione della classe media presuppone l’estensione del modello partecipativo al massimo numero possibile di paesi, chiedendo una maggiore parificazione tra parti datoriali e rappresentanti dei lavori.

In funzione di una visione di fondo volta a creare un nuovo futuro egalitario, appare imprescindibile il ruolo di una politica fiscale giusta e progressiva e di politiche attive per un’istruzione avanzata ed innovativa.

Genericamente etichettabile come un neo-socialista, Thomas Piketty, l’autore di “Capitale e ideologia”, sposta la visuale dai tradizionali riferimenti di classe a quelli di una più ampia “lotta ideologica”, che analizzata l’evoluzione sociale dalle antiche società schiavistiche fino ad approdare alla modernità iper-capitalista. Nocciolo essenziale della tesi è che la diseguaglianza non sia provocata dall’economia ma dalla politica e dall’ideologia.

La sinistra crede nell’impegno e nel merito nello studio; la destra, nell’impegno e nel merito negli affari. La sinistra si prefigge l’acquisizione di titoli di studio, di sapere e di capitale umano; la destra, l’accumulazione di capitale monetario e finanziario.

Quanto alla discussione sulla tassazione delle multinazionali, la tesi vuole che non solo si debba capare le tasse, che vengono risparmiate quando quelle imprese vanno nei paradisi fiscali, ma che si condividano con il sud del mondo.

Le tasse su ricchi e su redditi alti servano per aiutare la ripresa e ridurrebbero disuguaglianze. I governi dovrebbero considerare tasse più alte sui ricchi per pagare i servizi in favore delle classi svantaggiate. Questo aiuterebbe a ridurre le disuguaglianze e aumenterebbe la probabilità di una mobilità intergenerazionale.

I governi dovrebbero spingere sugli investimenti pubblici “per assicurare che tutti possano beneficiare della storica trasformazione delle economie. Per sbloccare questo potenziale, i paesi avranno bisogno di spendere in modo efficiente e di aver sufficienti entrate fiscali. In molti casi, questo significherà una tassazione progressiva e un accordo internazionale su temi come la minimum tax per le aziende”.

Con Italia, Francia e Spagna, c’è ora una maggioranza per un piano di ripresa molto più ambizioso. Se questi tre paesi dovessero proporre una simile intesa, la Germania finirebbe per accettare questa prospettiva, e gli altri paesi si unirebbero gradualmente. Se invece restiamo bloccati alla regola dell’unanimità che domina il dibattito continentale ed è lo schema proprio delle istituzioni comunitarie, c’è il grande rischio di non pervenire ad alcun risultato significativamente utile, andando così ad aumentare la sfiducia e la frustrazione. È tempo che l’Europa abbia fiducia nella democrazia che funziona con votazioni a maggioranza.

Come noto, in Germania e in Svezia, i rappresentanti dei dipendenti partecipano da tempo ai consigli di amministrazione delle aziende; ciò favorisce un cambiamento ideologico, in grado di innescare una circolazione della proprietà o meglio una circolarità di gestione della proprietà. Il dato di fondo è che con queste aperture non solo si esce finalmente dalle vecchie logiche classiste e conflittuali, ma si offre un’alternativa reale alle nuove domande partecipative: domande che interessano le aziende ed il mondo del lavoro e che riguardano inevitabilmente anche il tema della rappresentanza politica, collegato alle tradizionali forme della democrazia liberale.

Il programma sociale Biden, o piano di “infrastrutture umane”, prevede di mantenere fino al 2025 l’estensione della detrazione per i bambini adottati nel piano di salvataggio, con pagamenti in contanti ai genitori, anche a coloro i cui redditi sono esenti da tassazione. Obiettivo dichiarato è di ridurre la povertà infantile, una piaga che la pandemia ha ulteriormente aggravato. Biden vuole far crescere milioni di americani, riducendo del 50% la povertà che ora colpisce un bambino su sei.

La proposta di infrastruttura Biden è combinata ed è divisa in due (infrastruttura fisica e sociale), poiché si ritiene che sarà più facile spingere le proposte separatamente. Le principali obiezioni, a ciò che i repubblicani considerano uno spreco, verranno non solo dall’opposizione al Congresso ma, anche, dal “fuoco amico”. I democratici moderati infatti hanno proposto un aumento dell’imposta sulle società inferiore del 25%, una percentuale che faciliterebbe il passaggio di approvazione.

C’è bisogno di  un allargamento del piano infrastrutturale incentrato sui programmi sociali, come ad esempio l’espansione della protezione dei bambini e il miglioramento dell’offerta di istruzione pubblica. E per finanziarlo, si è immaginato, tra l’altro, di aumentare le tasse ai redditi più alti.

La fazione più progressista ha bisogno di  una sorta di tassa sul patrimonio, con iniziative (promosse in diversi stati) per tassare i milionari. L’obiettivo è duplice: ridurre il deficit delle casse pubbliche e raccogliere fondi-extra per la ripresa.

Un altro aspetto che sarà modificato nell’attuale sistema fiscale sarà l’imposta di successione. Ora è tassata solo al momento dell’acquisizione dell’eredità e non prevede la successiva rivalutazione dei beni ricevuti.

Rino Marino

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