Le tendenze del nostro mercato del lavoro vengono generalmente commentate in relazione all’andamento dell’occupazione dei lavoratori dipendenti e sulle caratteristiche dei rapporti di lavoro. Alle dinamiche dei lavoratori autonomi vengono dedicate poche battute. Nonostante il peso numerico di questa componente nel nostro mercato del lavoro (il 21% del totale degli occupati) risulti superiore rispetto alla media dei Paesi europei (13,8%), e della rilevanza della riduzione del loro numero (-1,2 milioni) nel corso degli anni 2000. Il fenomeno trova una spiegazione nella complessa galassia dei mestieri e delle professioni accomunati dalla partita Iva, ma che non esprimono interessi

Questo aggregato viene attualmente quantificato dall’Istat in circa 5,1 milioni di partite Iva. Una buona parte di queste microimprese e di studi professionali assume lavoratori dipendenti. La componente principale, circa 3,4 milioni, è rappresentata dall’insieme dei mestieri (coltivatori diretti, artigiani e commercianti) che sono parte integrante delle filiere della produzione e della distribuzione di beni e servizi. Segue quella dei professionisti, circa 1,3 milioni, per la gran parte appartenenti agli ordini professionali o a categorie ben identificate che hanno caratteristiche simili. Il mezzo milione residuale di occupati è rappresentato dal magmatico aggregato dei lavoratori parasubordinati (agenti commerciali, intermediari immobiliari, piccoli trasportatori, collaborazioni coordinate, lavoratori occasionali), iscritti all’apposito fondo pensionistico presso l’Inps.
Alla rigenerazione dei lavoratori autonomi e dei professionisti è mancata la spinta del comparto del terziario avanzato e dell’utilizzo delle tecnologie digitali nelle attività produttive e nell’erogazione dei servizi che hanno svolto un ruolo propulsivo per la crescita della produttività e dell’occupazione nei Paesi sviluppati nel corso degli anni 2000.

Nelle indagini effettuate dall’Eurostat relative alle caratteristiche degli occupati nell’Ue, l’Italia è l’unico Paese che ha registrato una perdita (-1,3 milioni) di lavoratori con qualifiche medio-elevate, tra i quali circa 600 mila lavoratori autonomi. Il ritorno al numero degli occupati precedenti alla crisi economica del 2008 è avvenuto grazie a un’analoga crescita degli addetti ai servizi nella fascia delle basse qualifiche. Due terzi del divario occupazionale del tasso di occupazione rispetto alla media dei paesi Ue (-9%, equivalente a poco più di 3 milioni di posti di lavoro a parità di popolazione), si manifestano nei comparti della sanità, dell’istruzione, della cura alle persone e dei servizi destinati alle imprese. Pesa sulla mancata domanda di prestazioni e di personale, la carenza degli investimenti pubblici nei comparti citati, che hanno avuto un peso rilevante per la digitalizzazione dei servizi con effetti positivi trasferiti sul coinvolgimento degli utenti, dei consumatori e delle imprese, per la crescita della produttività e sulla domanda di lavoratori qualificati dipendenti e autonomi per trasferire e gestire le innovazioni tecnologiche nelle organizzazioni del lavoro.

In parte, ciò è avvenuto anche in Italia durante la ripresa economica nei tre anni recenti sull’onda del Superbonus per le ristrutturazioni abitative che, per quanto criticabile per l’impatto sui conti pubblici, ha stimolato la domanda di progettisti, esperti di nuovi materiali, certificatori, personale esecutivo specializzato, che hanno contribuito a compensare le perdite occupazionali subite dalla componente dei professionisti e dei lavoratori autonomi nel corso della pandemia da Covid-19. L’impatto delle nuove tecnologie sulle organizzazioni produttive e l’esodo pensionistico dei lavoratori anziani riorganizzazioni sta facendo emergere un fabbisogno non soddisfatto di servizi professionali evoluti.

Il programma Next Generation Eu, finanziato con le risorse del Pnrr, propone come obiettivo principale quello di rimediare la carenza di dotazione di infrastrutture e di risorse umane in grado di attrezzare il nostro Paese per reggere la transizione digitale ed ecosostenibile della nostra economia. Ma si scontra con l’oggettiva carenza di lavoratori competenti e di politiche attive del lavoro. Queste ultime risentono della scarsa mobilitazione del sistema della formazione per soddisfare i nuovi fabbisogni e per agevolare l’incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro.

Nel contempo l’impiego delle piattaforme informatiche in molti ambiti (la logistica, la manutenzione di infrastrutture e di beni durevoli, il franchising) ha stimolato l’impiego delle partite Iva e delle collaborazioni a prestazione per soddisfare i fabbisogni di flessibilità delle imprese committenti, con caratteristiche di subordinazione simili al lavoro dipendente e con i relativi fabbisogni di tutela. Novità che sono diventate oggetto di numerosi interventi della Magistratura e di una Direttiva europea che propende ad assimilare le prestazioni e le tutele a quelle del lavoro dipendente.

Il tema della regolamentazione del lavoro a prestazione comincia a emergere nella contrattazione collettiva come conseguenza della diffusione dello smart working per i lavoratori dipendenti. Ma è un’esigenza che si manifesta anche per tutelare i lavoratori con partite Iva che ottengono risultati migliori offrendo prestazioni verso più datori di lavoro. L’ibridazione del sistema delle tutele tra lavoro dipendente e quello autonomo è un processo inevitabile e che deve essere affrontato con modalità inedite dalle rappresentanze del mondo del lavoro che riguardano le modalità di remunerare il lavoro sulla base delle ore lavorate o degli obiettivi raggiunti, la valutazione del grado di autonomia o di dipendenza del lavoratore, la possibilità di svolgere le prestazioni in esclusiva o o verso più datori di lavoro. Il cambio di paradigma fatica a essere assunto dalle attuali rappresentanze dei datori di lavoro e dei lavoratori perché comporta uno sconfinamento del perimetro categoriale e dei contenuti della rappresentanza. Prevale pertanto la tentazione di rispondere al fabbisogno di nuove tutele aumentando la produzione di norme legislative e sollecitando nuovi pronunciamenti della magistratura in materia dei trattamenti salariali e di tutele.

È un percorso che prescinde dalla capacità di analizzare correttamente i fabbisogni e di aggiornare le tutele senza deprimere le potenzialità delle innovazioni tecnologiche e la crescita della produttività. L’innovazione sociale non può prescindere dal ruolo delle rappresentanze sociali e dall’esigenza di esercitare il compito della mediazione sociale degli interessi e della valorizzazione combinata del capitale investito e delle competenze dei lavoratori.

Natale Forlani 

Pubblicato su www.ilsussidiario.it

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