Non è ancora il momento di tirare le somme in ordine alla prova che sta dando di sé il nostro sistema sanitario. A maggior ragione, se volessimo confrontare i differenti indirizzi adottati da diverse Regioni. Soprattutto perché siamo tuttora in una fase del tutto delicata e se è giusto avanzare critiche anche serrate e crude – come hanno fatto in Lombardia la Federazione Regionale degli Ordini dei Medici e l’ Uneba – è, altresì, doveroso che i destinatari, anziché adontarsi, ne tengano conto e correggano il tiro, per quel che ancora si può.
Senza che siano loro – a differenza di chi ha detto chiaramente il proprio pensiero, argomentando e senza i toni dell’invettiva – a volerla buttare “in politica”, esercitandosi affannosamente in una difesa impacciata.
Verrà poi il momento – una volta allentata la presa della pandemia ed avendo a disposizioni tutti gli elementi di valutazione – di discutere a fondo i meriti indubbi ed i limiti, pur emendabili, di un sistema sanitario a copertura universalistica della domanda di salute.
Il quale risponde ad una impostazione sociale e culturale che – questo non va dimenticato – pur passando attraverso tante vere o presunte “riforme della riforma” che si sono succedute da allora, risale al provvedimento-madre di riforma generale: la legge 833 del lontano 1978, che ha cancellato il vecchio sistema mutualistico e data piena attuazione al principio costituzionale del diritto alla salute, riconosciuto paritariamente ad ogni cittadino.
Va detto chiaramente, a tale proposito, che il SSN del nostro Paese sta complessivamente reggendo – per ora anche in Regioni che si temeva non potessero farcela – in quanto, anzitutto, e’ fondato su principi, criteri politici ed indirizzi operativi che risalgono a quella stagione della vituperata “prima Repubblica” in cui le riforme, anziché essere annunciate, si facevano davvero.
Vale la pena di ricordare che in quello stesso drammatico anno, il Parlamento condusse in porto – il 13 maggio, cioè quattro giorni dopo l’assassinio del Presidente Moro – la legge 180, la cosiddetta “legge Basaglia” che – ammirata e studiata in mezzo mondo – chiudeva i “manicomi”, umanizzava la cura dei pazienti affetti da malattie psichiche ed apriva il cammino di una autentica svolta storica.
Probabilmente noi siamo più bravi a concepire – come è stato in questi casi – leggi fortemente innovative che non a tradurne poi l’intero potenziale in servizi. Infatti, non abbiamo forse neppure sfruttato pienamente la forza propulsiva per quel tempo – eppure tuttora importante e decisiva – della 833.
Anche perché già allora – sia pure timidamente, rispetto alla sfrontatezza di oggi – le Regioni a statuto ordinario, istituite nel 1970, avevano avviato quel processo di differenziazione geopolitica dei servizi sanitari che oggi ci ha condotto, per contro al centralismo del Governo, a tanti “centralismi” locali quante sono le Regioni e, dunque, ad un “puzzle” difficilmente componibile, come constatiamo in questi giorni, perfino circa la modalità di raccolta dei dati clinici ed epidemiologici.
Infatti, la 833 introduceva – quando il lessico politico-istituzionale non contemplava ancora questi termini – una struttura “a rete”, incentrata su processi di integrazione dei ruoli e delle competenze dei vari attori del sistema.
Integrazione tra medicina della cura, medicina della prevenzione e riabilitativa; tra ospedale e territorio; tra servizi sanitari e servizi socio-assistenziali; integrazione tra sanità pubblica e sanità privata.
E’ nata allora una stagione molto fertile che ha visto le Regioni più significative cimentarsi con i “piani socio-sanitari” che, programmando sinergicamente servizi sanitari e servizi sociali, avviavano una fase importante di razionalizzazione del sistema ospedaliero e, nel contempo, di valorizzazione dei servizi territoriali.
Senonché, e’ poi prevalsa la trasformazione “aziendalistica” del sistema sanitario, cosicché la salute è diventata un “prodotto” che, essendo come tale soggetto alle regole di mercato, dovrebbe trovare il punto di equilibrio nel prezzo su cui convengono domanda ed offerta. Senza, peraltro, considerare come la salute sia un bene del tutto particolare, di cui si può dire che, pur avendo un costo, non ha prezzo…
Insomma, essendo ovviamente avvertita come il bene primario, la domanda di salute è una variabile indipendente del sistema che sconta sempre un possibile scarto rispetto all’offerta di prestazioni e servizi con relativi costi.
Analogamente un altro dato stride con la logica mercantile applicata alla salute: diversamente da quanto avviene negli altri ambiti produttivi, in sanità non è affatto detto che l’innovazione tecnologica – che giusto fin dagli ultimi due-tre decenni del secolo scorso cominciava a farsi incalzante – aumenti la produttività e diminuisca i costi di produzione.
Infatti, succede che non sempre l’introduzione – peraltro onerosa – di una tecnologia più avanzata renda del tutto obsoleta quella precedente o non implichi, ad esempio a fronte di procedure diagnostiche più sicure e meno invasive, un netto ampliamento delle indicazioni clinicamente appropriate per quello specifico esame o per un determinato territorio; tra servizi sanitari e servizi socio-assistenziali; integrazione tra sanità pubblica e sanità privata.
E’ nata allora una stagione molto fertile che ha visto le Regioni letteralmente trapiantati da sistemi sanitari di tipo assicurativo, qui da noi hanno determinato, in un contesto a carattere universalistico, una torsione involutiva del sistema. Nel contempo, su un terreno perennemente dinamico com’è il campo della salute, via via si intrecciavano e tuttora si intrecciano, processi evolutivi diretti, ad esempio, ad una progressiva de-ospedalizzazione che, in altra occasione, andranno, a loro volta, esaminati attentamente, anche in ordine alle tracce che hanno lasciato sulla funzionalità attuale del nostro apparato sanitario.
Va, ad ogni modo, riconosciuto come l’onda d’urto della pandemia sia stata tale da rendere se non giustificati, almeno comprensibili ritardi o incertezze, anche errori palesi, sia a livello centrale che periferico. Del resto, anche ricercatori e clinici, medici al letto del paziente e virologi (medici o biologi che siano) nei loro laboratori, epidemiologi ed esperti di statistica hanno suggerito approcci diversi ed ancora discutono animatamente negli organi tecnici di consulenza.
Disgraziatamente – o fortunatamente – la medicina non è una scienza esatta; anzi della scienza e delle tecniche più avanzate fa uso, in maniera sempre più raffinata ed efficace, eppure non si esaurisce in questo approccio ed ha, per altro verso, sempre e comunque esposta all’imponderabile della vita.
Domenico Galbiati