Speranza e carcere, emarginazione e fragilità, disabilità, cioe’ sofferenza “incarnata”, che fa tutt’uno con il vissuto quotidiano. Sono le parole che più frequentemente ricorrono nei commenti all’apertura della Porta Santa, nel carcere di Rebibbia, da parte del Santo Padre.
Che cosa può innalzare il grigiore di una cella fino allo splendore delle volte di una Cattedrale?
Perche’ la speranza rinasce dalla sofferenza e non piuttosto dai fuochi fatui del successo, dell’edonismo e dei consumi, dalla bulimia di un presente che, senza radici e senza attese, crede di bastare a sé stesso e si consuma nell’istantaneità di un desiderio effimero?
Papa Francesco ha parlato da Rebibbia come se fosse affacciato al balcone di San Pietro, di fronte al colonnato che sembra abbracciare nella piazza il mondo intero. “Urbi et orbi”, come nel giorno di Natale. Come in quel tardo pomeriggio del marzo 2020, quando il Santo Padre, quella piazza la riempì da solo.
Ora, dalla reclusione di un carcere, non meno di allora, le parole del Santo Padre parlano a tutti, forse in modo particolare a chi non nutre la speranza della fede, per affermare semplicemente come, al contrario, sia ancora e sempre lecito sperare. Ad un mondo che sembra scosso dalle fondamenta, attraversato dai solchi profondi delle disparità sociali, accecato dalle promesse presuntuose del progresso tecnologico, ad un tempo incantato ed intimorito, frustrato ed illuso da processi e da trasformazioni che sembrano imporsi, al di la’ di ogni sua libera determinazione, come se il demone del tempo, una sorta di necessità fatale, intrinseca alle cose del mondo lo incatenasse, il Papa, armato solo dell’ autorità morale del Vangelo, dà la buona novella: è ancora lecito sperare. Per ognuno e per la vita del mondo.
Intanto, sembra dire Papa Francesco, radichiamoci in questa certezza. Tutto il resto viene dopo e comincia da lì.
Senonché, la speranza è un dono, ma, nel contempo, un traguardo da guadagnare giorno per giorno ed anche la politica vi ha molto a che vedere. La speranza intesa come cantiere sempre aperto di un’architettura ambiziosa ed ardita, che sappia sovraintendere alla costruzione di una società in cui libertà e giustizia sappiano camminare appaiate, anzi alimentandosi a vicenda.
Domenico Galbiati