È stato più volte detto che non ha senso per la UE disporre di una forza armata comune se non c’è una politica estera condivisa. D’altro canto il ragionamento si può ribaltare: senza il sostegno di una adeguata forza militare europea, una politica estera comune non è credibile. Quindi le due cose dovrebbero procedere insieme.
Tuttavia, ad ostacolare una comune politica estera, c’è la mancanza di una linea che abbia il consenso non solo di tutti i governi dei Paesi della Comunità, ma anche della loro pubblica opinione, e ciò a partire dai due scenari internazionali più rilevanti e critici: l’Ucraina e il Medio Oriente.
Riguardo all’atteggiamento nei confronti della guerra in Ucraina, secondo alcuni esperti di geopolitica, si possono individuare nella UE tre distinti gruppi di nazioni.
C’è il blocco dei nordici (scandinavi e baltici in particolare) e la Polonia che si fanno interpreti di una posizione intransigente (in ciò pienamente sostenuti dal Regno Unito) contrari a compromessi con la Russia e pertanto favorevoli a un continuazione indefinita della guerra.
C’è l’insieme dei Paesi danubiani (in prima linea quelli ex asburgici) dall’Austria alla Romania (dove con motivazioni inconsistenti è stato bloccato un cambio al vertice dello Stato in direzione indesiderata a Bruxelles e Washington), Paesi che non intendono continuare a sostenere l’Ucraina e vogliono una rappacificazione con la Russia.
C’è infine il più consistente e storico nucleo della UE dove è sempre più manifesta, in una significativa parte della popolazione, una stanchezza nei confronti della situazione bellica (responsabile in notevole misura della forte crescita dei prezzi dell’energia con quanto ne consegue), malgrado le apparentemente rigide posizioni dei governi, alcuni dei quali (Francia e Germania) sono però assai deboli per le crisi politiche che attanagliano i loro Paesi.
Tutti aspettano le prime mosse di Trump per vedere che cosa accadrà in questo teatro di guerra, ma ci dicono sempre gli esperti di geopolitica che il neo presidente non potrà ignorare nelle sostanza le indicazioni delle agenzie di sicurezza. Queste ultime però non sono un monolito: in materia, c’è infatti un dissidio tra le tre più importanti.
Il Dipartimento di Stato intende mantenere il sostegno a Kiev a tutela dell’immagine di una America, potenza Numero Uno, garante dell’attuale equilibrio internazionale. La CIA considera negativo il non addivenire a una qualche intesa con la Russia, che altrimenti finirebbe sempre più nelle braccia di Pechino. Il Pentagono ritiene imprudente farsi coinvolgere troppo a lungo sul fronte ucraino indebolendo nel resto del mondo la presenza militare statunitense.
In tema di Medio Oriente, al di là delle intenzioni di Trump, se continuerà la tolleranza o peggio il sostegno statunitense nei confronti della condotta espansionistica israeliana (non nata oggi), i Paesi della UE dovranno dimostrare di esistere facendo qualche cosa di concreto rispetto alla pulizia etnica ormai palesemente avviata nei confronti dei palestinesi di Gaza e dei territori occupati, oppure smetterla di recitare con sempre meno convinzione la lezioncina dei due popoli e dei due Stati.
Veniamo all’esercito europeo. Fino ad oggi si sono spese molte parole, ma di concreto si è visto ben poco. Ne sono responsabili i governi europei poco inclini a delegare competenze in materia di difesa rinunciando alla propria sovranità. Non dimentichiamo tuttavia che il principale ostacolo fino ad oggi è stato posto dall’America. Washington (chiunque sia alla presidenza), in tutti i campi, ha inteso mantenere relazioni bilaterali con le singole nazioni europee senza mai rivolgersi alla Commissione di Bruxelles. E ciò massimamente in campo militare, dove ogni decisione americana è trasmessa agli “alleati” tramite la NATO.
Di certo c’è stata la richiesta della NATO di portare la spesa per la difesa al 2% del PIL, spesa che oggi pare voler essere estesa al 3%, mentre Trump parla del 5%. Si tratta in ogni caso di cifre molto ingenti, per reperire le quali gli Stati europei dovranno sottrarre risorse ad altri settori (spesa sociale, istruzione, sanità ecc.) o indebitarsi ulteriormente scaricandone gli oneri sulle prossime generazioni. La gente lo intuisce, ed allora, per non perderne il consenso, autorevoli rappresentanti della classe politica europea ci dicono che purtroppo si devono fare questi sacrifici per far fronte ai disegni imperialisti delle potenze autocratiche, o comunque tenere il passo con esse in tema di armamenti.
Da dove giungono le minacce che impongono ai Paesi europei di aumentare le spesa militare? La Russia è la risposta che ci viene da Bruxelles, dai vertici delle istituzioni dei principali Paesi dell’Unione e dalla quasi totalità dei media.
In materia, si elenca una serie di motivazioni per sostenere che la Federazione russa è pericolosa: vive in un’altra epoca essendo rimasta ai tempi degli imperi, mentre il mondo avanzato sta abolendo i confini; la Russia con l’aggressione all’Ucraina ha violato il diritto internazionale; qualunque pace con Mosca sarebbe la ripetizione di quegli accordi di Monaco che diedero ad Hitler il via libera per aggredire l’uno dopo l’altro i principali Paesi dell’Europa continentale; se Putin non sarà sconfitto in Ucraina sarà in grado, in pochi anni, di impadronirsi dei territori che furono parte dell’Unione Sovietica, poi dei paesi dell’ex patto di Varsavia ed infine di quelli dell’Europa centrale e occidentale. Il Segretario della Nato Mark Rutte, poco tempo fa, ha detto che, se non si ferma la Russia in Ucraina, ai cittadini europei non resterebbe altro che imparare il russo o fuggire in Nuova Zelanda.
Si tratta di argomentazioni sostenute anche da autorevoli personalità, che, tuttavia, debbono essere sostenute dai fatti.
In un articolo del 2014 (Spese militari: parole e fatti), avevo riportato, sulla base del rapporto del SIPRI relativo al 2012, i valori in dollari della spesa militare dei principali paesi. Ne risultava che circa il 40% della spesa militare globale era imputabile ai soli Stati Uniti, mentre quella dell’insieme dei Paesi afferenti alla NATO raggiungeva il 60% di detta spesa. Avendo tutto il resto del mondo (compresi Paesi amici dell’Occidente) una spesa complessiva del 40%, sorgeva inevitabile la domanda da chi mai USA e NATO dovessero difendersi e per quale motivo intendessero, già a quel tempo, incrementare ulteriormente una spesa elevatissima. Sono passati più di dieci anni da allora, e dobbiamo chiederci se e come il quadro sia mutato.
Secondo l’ultimo annuario del SIPRI, la spesa militare globale (2023) è aumentata raggiungendo i 2443 miliardi di dollari. Tutti gli Stati hanno speso di più, e alcuni nuovi attori (India e Arabia Saudita) hanno fatto notevoli passi in avanti (per le crescenti tensioni in Asia e Medio Oriente), mentre la Russia (in piena guerra sul fronte ucraino) ha incrementato la spesa portandola ad oltre il 6% del PIL (che però è di poco superiore a quello della sola Italia).
I cinque Paesi, con maggiore spesa militare nel 2023, sono gli Stati Uniti (916 miliardi di dollari), la Cina (296 miliardi di dollari), la Russia (109 miliardi di dollari), l’India (84 miliardi di dollari) e l’Arabia Saudita (75 miliardi di dollari, valore di poco superiore a quello del Regno Unito). Merita tuttavia segnalare che la UE, facendo la sommatoria della spesa dei Paesi ad essa afferenti, ha stanziato per la difesa 288 miliardi di dollari, mentre considerando l’insieme delle nazioni europee appartenenti alla NATO, la spesa raggiunge i 346 miliardi di dollari.
Circa l’incidenza sulla spesa militare globale, gli Stati Uniti mantengono un assoluto primato partecipandone per il 37,5%, la Cina per il 12,1 %, la Russia per circa il 5%, l’India per il 3,4%, l’Arabia Saudita per il 3,1%. Si noti che la spesa dell’insieme dei paesi della NATO corrisponde al 54,1% e quella dei paesi della UE all’11,8%.
Come si giustificano con queste cifre le affermazioni che i Paesi della UE debbano incrementare la spesa militare per evitare di essere sopraffatti da una Russia sempre più aggressiva?
I dati del SIPRI, viene detto, non rappresentano la realtà, sono manchevoli perché la spesa russa è sicuramente molto più grande. Tuttavia non solo il Sipri è una organizzazione seria, capace di verificare quanto pubblica, ma bisogna considerare che una potenza, per impegnarsi in una politica espansiva, deve avere alle spalle una forte economia (quella russa ha un PIL molto basso), un significativo sviluppo tecnologico nei settori vitali per i nuovi armamenti da mettere in campo (la Russia è certo più indietro dei Paesi occidentali); c’è infine la demografia (la Russia ha meno di un terzo dei soli abitanti della UE).
Si risponde che la Russia è una potenza nucleare. Tali armi possono essere determinanti se a possederle è una sola potenza che, in tal caso, potrà utilizzarle (vedi Hiroshima e Nagasaki), ma non più quando sono molti a disporne. Servono come deterrenza, e il loro impiego al massimo potrà essere considerato solamente nel caso di evitare una capitolazione o una invasione del Paese da forze soverchiati e meglio armate.
Maurizio Cotta si è domandato quali siano le esigenze di difesa che devono essere prese in considerazione da una UE che si concepisca come attore non imperialistico, ma nemmeno inerme nel mondo di oggi.
Ma la UE, come abbiamo visto, non è inerme. Senza aver raggiunto il 2% del Pil, spende già 288 miliardi di dollari. Inoltre, se la sua spesa fosse portata al 3% del Pil, la UE diventerebbe la seconda potenza al mondo per spesa per la difesa, scavalcando di molto la Cina.
Eppure è convinzione diffusa che l’Europa sia militarmente debole, e che, senza gli Stati Uniti alle spalle, diventerebbe un ghiotto boccone per il vicino orientale. Forse i Paesi della UE spendono male i loro soldi in questo campo. Infatti, a parte forse la Francia, nessun esercito delle nazioni della Comunità è in grado di muoversi in autonomia in qualsivoglia teatro di guerra, mancando di taluni armamenti e/o di specifici sistemi di arma in settori vitali. Possono agire solo nel quadro NATO a supporto della forza dello Stato guida. È come capitava ai clientes dell’impero romano.
Quindi per avere un esercito europeo in grado di farsi rispettare, più che aumentare gli stanziamenti, sarebbe indispensabile riorganizzare e integrare la spesa militare dei Paesi dell’Unione. Perché allora aumentarla?
Certamente non sono trascurabili le pressioni dell’industria degli armamenti. Già Eisenhower, ad inizio anni Sessanta, denunciò le manovre e le pesanti pratiche lobbistiche di quel concerto militare-industriale, determinato a condizionare la politica internazionale del Paese in funzione dei propri interessi. E ciò non capita solo negli USA.
Poi ci sono le continue innovazioni tecnologiche nei settori digitale, elettronico e dell’intelligenza artificiale che impongono il pronto adeguamento degli armamenti e dei sistemi di arma.
Infine, in un mondo che cambia con l’emergere di nuove potenze, c’è la volontà della Numero Uno di coinvolgere gli “alleati” europei a sostegno dell’assetto unipolare che fatica a reggere in solitudine. L’America pertanto ha bisogno dei clientes europei per perseguire interessi e scopi ad essa funzionali in contesti di cui non può più occuparsi direttamente.
Dubito pertanto che, comunque vadano le cose in Ucraina e in Medio Oriente, i Pesi europei potranno sottrarsi alla richiesta di maggiori spese militari, che (a differenza di quanto possa pensare Draghi) non credo risolveranno quella crisi industriale che li attanaglia, ma piuttosto incideranno in senso negativo su quel welfare elemento distintivo, fino ad oggi, del nostro continente.
Giuseppe Ladetto
Pubblicato su www.associazionepopolari.it