L’ entrare in un tempo nuovo legittima la domanda in ordine a quale sia, tra quelle che abbiamo ereditato dallo scorso secolo e le più recenti, la cultura politica più adatta ad intercettare l’orizzonte verso cui ci stiamo incamminando.
L’insieme dei processi che chiamiamo “globalizzazione” lo sviluppo incalzante della “tecno-scienza” la crescita esponenziale della comunicazione e del digitale, con il tendenziale formarsi di una sorta di mente collettiva, cui si accompagnano le tesi “transumaniste” le migrazioni ed il pauroso crescente divario tra paesi ricchi e paesi poveri, il possibile collasso dell’ ecosistema: siamo in presenza di fenomeni ognuno dei quali basterebbe da solo a connotare un’epoca. Senonché, sovrapposti nella stessa fase temporale, così da potenziarsi vicendevolmente, creano una “condizione-limite” che sfida la nostra capacità di giungere ad una sintesi ragionata e ragionevole del momento storico.
Dobbiamo, anzitutto, prendere atto di come oggi non sia più possibile ricondurre l’impulso dirompente di questi processi, buoni o cattivi che siano, in ogni caso fortemente innovativi, ad un’organica “composizione del conflitto”. Cioè ad una concertazione sistemica che, a sua volta, approdi a quella razionalizzazione che rappresenta la ” cifra” e la più alta aspirazione della modernità. Stiamo irrevocabilmente passando, anche sul piano sociale e collettivo, da sistemi chiusi a sistemi “aperti”. Cioè – se la similitudine regge – a quella “fisica del caos” che dà conto di quei fenomeni, che si mostrano “non lineari”. Talmente suscettibili a minime oscillazioni delle condizioni iniziali di un qualunque processo da rendere del tutto imprevedibile l’esito conclusivo cui approda il sistema.
Processi ancora impredicibili che rispondono all’ossimoro di una aleatorietà necessaria. Se fossimo capaci di far decollare la nostra mente come fosse un drone fino a cogliere, in un solo colpo d’occhio, le linee di tendenza, i nodi irrisolti e le contraddizioni, ma anche gli sviluppi possibili e le potenzialità del “momento” in cui siamo immersi, ci accorgeremmo della straordinaria ricchezza e della “drammaticità” del nostro tempo.
In un bellissimo articolo pubblicato su questo nostro giornale, Enrico Costa invoca – traducendo in positivo lo stesso trauma della pandemia – il formarsi di una nuova “coscienza collettiva” ( CLICCA QUI ). Che sia – si potrebbe aggiungere, adottando il linguaggio del filosofo francese Francois Jullien – al tempo stesso un “evento” e un “avvento”. Una trasformazione che di per sé affiora da quella comune meditazione sui valori effettivi della vita che si colgono meglio se osservati in controluce al timore della morte che la pandemia ha fatto incombere su tutti e che, al tempo stesso, non basta a se stessa, se non viene promossa e sorretta da un ruolo attivo che la politica sappia esprimere nella stessa direzione.
Se potessimo spingere più avanti la similitudine – o addirittura l’analogia – tra fenomeni complessi della vita nel suo stesso fondamento biologico e processi storici, dovremmo discutere di cause formali e finali e di attrattori che richiamano, come se li risucchiassero, determinati percorsi verso equilibri nuovi ed apparentemente del tutto improbabili a prima vista. Saremmo legittimati a chiederci cosa ne sia della Politica, della sua funzione e delle sue modalità di lavoro in questo passaggio da sistemi chiusi a sistemi aperti che è sfuggente dalla pretesa di ordinata, razionale organicità dell’età moderna, al contesto frammentato, disaggregato, liquido e elusivo, incomponibile di questo nostro tempo che ancora non sappiamo denominare, se non come post-moderno.
Se, sulla scorta dell’Età dei lumi, quando i contesti sociali erano, in definitiva, più stratificati e composti – insomma, più semplici – e la storia meno incalzante e precipitosa nei suoi sviluppi, molti ritennero di poterla imbragare in una legge generale che ne desse compiutamente conto, così da costruirci sopra un’ideologia, da cui dedurre geometricamente i suoi stadi successivi, questa peregrina e supponente illusione è definitivamente caduta. Sotto ogni cielo, i costruttori dell’ “uomo nuovo” hanno combinato solo immani massacri.
Oggi la realtà impone la sua stupefacente articolazione, a cominciare dai solchi e dalle fratture profonde che deturpano un panorama che è, nel contempo, zeppo di provocazioni che alludono a campi ancora inesplorati e forieri di un ricchissimo “valore umano”. Al punto che la Politica appare, per lo più, intimidita ed impotente. Si rattrappisce nella nicchia dell’ apparente efficienza di un pragmatismo, di fatto sterile, che la conduce ad abbandonare la sua ambizione più alta: la convinzione di dover orientare lo sviluppo degli eventi secondo un canone di valori assunti consapevolmente, anziché abbandonarli ad una loro spontanea ed occasionale deriva.
Ridotta in questi termini, la Politica non può far altro che lasciarsi condurre da processi che si fanno da soli e tutt’al più fa un po’ di infermeria, si dedica a smussare alcune punte estreme dei loro profili, arrotonda qualche spigolo, rasenta le ferite più profonde, ma non muta di un pollice la sostanza degli eventi.
Non resta – se vogliamo ancora perseguire il sogno di una “Politica” autentica e vera – che un modello. Fondato su principi e valori che non esprimano una potenza gratuita, ma piuttosto dicano quella verità dell’uomo che per noi fa tutt’uno uno con la Fede e da cui derivino progetti, indirizzi programmatici, criteri operativi che diano sostanza a quel “pensiero forte”, diretto alla “trasformazione” di cui parla il nostro Manifesto ( CLICCA QUI ).
Insomma, una “metodologia” della Politica propria della cultura cattolico-democratica che, anziché fossilizzarsi in schemi ossificati, legge il “reale” secondo quel metodo induttivo che lo osserva da vicino e lo interpreta, costruendo, via via, nuovi assiomi esplicativi che, fedeli all’identità valoriale originaria, diano conto della sua capacità di declinarsi sul piano sul piano effettivo dell’azione politica quotidiana.
Domenico Galbiati