Il fenomeno delle aggressioni violente nei presidi sanitari e negli ospedali porta alla luce inquietudini, emozioni e sentimenti che sedimentano nella nostra coscienza collettiva. È connesso, in primo luogo, ad una rabbia sociale che va crescendo a fronte della carenza e della disfunzione dei servizi. Mostra una attitudine alla violenza che è ormai endemica e pervade anche altri ambiti della nostra vita sociale. Come succede, ad esempio, nel campo del tifo calcistico.
Deriva anche da un’enfatizzazione dei diritti individuali talmente diffusa ed insistita da trasformarli in desideri e pretese che esigono pronta soddisfazione. Vi approdano pure alcuni versanti tipici della pedagogia “populista”, gettata a piene mani nella cultura diffusa dei giorni nostri: la semplificazione, il complotto, il sospetto.
Se un paziente staziona in Pronto Soccorso più del dovuto – eppure sarebbe così semplice ricoverarlo immediatamente – non è perchè in reparto manca il posto letto, ma per qualche mena del medico o dell’infermiere, il quale – chissà perchè si può sospettare di tutto – ad esempio, vuole privilegiare un altro malato.
Inoltre, le strutture deputate, ad ogni livello, ad erogare prestazioni di diagnosi e cura sono assimilate nel dettato normativo e, soprattutto, nell’accezione comune, ad “aziende” e non piuttosto, vissute, come dovrebbe essere, quali “comunità solidali”.
L’azienda, per definizione, sforna oggetti e genera utili, secondo una meccanica produttiva studiata in base a criteri di massima efficienza e di ottimizzazione delle risorse finalizzate al profitto. E se la catena produttiva si inceppa, l’ostacolo va rimosso quanto prima, ad ogni costo. Ma anche un altra ragione va considerata, forse la più rilevante: la medicina, in un certo senso, paga il mito della sua presunta onnipotenza. Soprattutto, le stupefacenti gesta del progresso scientifico e delle tecnologie che ne derivano non ammettono dilazioni, errori o fallimenti, cosicché, quando si ritenga di constatarne, evidentemente dipendono dal fattore umano, anello debole di una procedura che, in virtù dei suoi automatismi tecnici, per definizione, non può sbagliare.
In questa ottica, l’immagine del medico si rovescia contro sé stesso. Non è più colui che ridona la salute, ma quello che si interpone tra il paziente e la macchina, ritardando o intralciando la soluzione del problema che questa immancabilmente assicura.
Solo la morte che infine giunge per sfinimento dell’età può essere impunemente accettata. Su tutte le altre campeggia il sospetto di un’inadempienza, di una diagnosi non accurata, di un esame strumentale rinviato, di un atto sanitario non appropriato, di una trascuratezza da parte dell’operatore sanitario. A sua volta, questo modo di porsi di fronte alla morte, nasce inconsciamente dall’impellente bisogno di scotomizzarla, di metterla fuori dal nostro campo visivo. Come se fosse impossibile morire se non per un inganno del destino.
La morte non fa più parte della vita e la malattia è sempre e comunque letteralmente “insensata”, in nessun modo riconducibile ad un orizzonte di significato compiuto della vita. Per quanto vi siano, nel contempo, esempi straordinari di resilienza che attestano la forza effettiva e la tenuta della stoffa umana.
Infine, la medicina – e qui ci vorrebbe un apposito approfondimento – è destinataria di una domanda esorbitante. Come se le competesse non solo la salute, ma, nel tempo della piena secolarizzazione, anche la “salvezza”, la risposta ad una istanza interiore insopprimibile che, non trovando più soddisfazione in un contesto che ha smarrito la dimensione della trascendenza, deve, ad ogni modo, trovare un approdo alternativo.
Domenico Galbiati