Quando il Manifesto di Politica Insieme ( CLICCA QUI )segnala l’urgenza di un processo di “trasformazione” del Paese, denunciando come il tradizionale approccio “riformista” sia oggi di fatto superato, espone coloro che l’hanno condiviso e fatto proprio ad una prova di responsabilità che è un’autentica sfida. Non si può lanciare il sasso in piccionaia e poi nascondere la mano. Si deve essere conseguenti.
Del resto, “Politica Insieme” è un piccolo mondo, ma certo non “quattro amici al bar”. E’ nata via via aggregando, liberamente, senza costrizioni, senza opportunismi né convenienze, senza tatticismi, senza il retro pensiero di aspirazioni personali, nel segno di una gratuità generosa: amici che si sono riconosciuti, pur arrivando da differenti esperienze, attorno ad un riferimento moralmente, culturalmente, politicamente autorevole.
Assumendo una denominazione che, se non l’ avessimo adottata a suo tempo, avremmo dovuto scoprire oggi. Suggerita dall’evidenza di un tempo che, drammaticamente, richiede “politica”, nel senso proprio e migliore del termine ed esige che la si sviluppi, né da battitori liberi, né da intruppati in un coro di voci indistinte, ma “insieme”, cioè valorizzando in un percorso comune la capacità critica personale di ciascuno e la perdurante autonomia di giudizio di molti. E, del resto, per tanti di noi “Politica” riporta alla mente Nicola Pistelli ed una ininterrotta linea di cultura e di pensiero.
Non ci si può, dunque, sottrarre, meno che mai dopo che il corso degli eventi della pandemia è lì a mostrare come quell’intuizione fosse pertinente, perfino profetica, cioè capace di cogliere quanto fosse già maturo il tempo ed impellente la domanda di un cambiamento che stava nelle cose. Al punto che lo stesso virus, in definitiva, non ha fatto altro che accelerare, precipitare e radicalizzare un processo di svolta epocale le cui premesse andavano ormai gonfiando in modo incontenibile le vele della nostra vicenda storica.
Non è escluso – anche se oggi può apparire blasfemo ed offensivo dirlo, a fronte di tante vittime – che la pandemia finisca, ad un giudizio più ponderato che potremo dare solo a suo tempo, addirittura per rivelarsi provvidenziale, nella misura in cui taglia di netto, con un sol colpo, i nodi gordiani che ci attardavano in un tempo consunto e ci costringe, invece, come se l’umanità rivivesse l’ avventura di Odisseo, ad affrontare un mare aperto, sicuramente ricco di insidie, ma forse non privo di promesse. Chissà che non stiamo anche noi veleggiando verso la nostra Itaca, cioè, sia pure errando travolti dal fato, verso un approdo capace di riconsegnarci a noi stessi, di riportarci alla consapevolezza della dignità originaria che ci appartiene.
Ma come dobbiamo intendere esattamente questa “trasformazione”?
Si tratta semplicemente di una sorta di bricolage, di una differente dislocazione degli elementi che compongono un quadro, oppure “trasformare” significa un “andare oltre”, riscoprire nelle cose e soprattutto nei gesti una “eccedenza” di significato che abbiamo via via insensibilmente smarrito?
Ad esempio – ricorrendo ad un tema che anche Zamagni riprende spesso – non significa forse disseppellire dal cumulo di mera “istruzione”, di formazione ed adattamento funzionale alla “produttività” del sistema, il compito “educativo” della scuola? Oppure, in campo sanitario, superare la logica dei cosidetti DRG (Diagnostics-Related Group) – unità di misura e di validazione economica delle prestazioni sanitarie – che, trapiantati qui da noi, tratti da apparati sanitari di carattere assicurativo, hanno spinto la “aziendalizzazione” di un sistema a copertura universalistica della domanda di salute, come il nostro, verso una torsione negativa? O, ancora, recuperare quella capacità di programmazione integrata tra medicina ospedaliera e medicina del territorio, tra servizi sanitari ed assistenziali, cui pure Regioni virtuose avevano dato il via fin dagli anni ’70, cosicché avrebbero evitato il marasma cui stiamo assistendo oggi in Lombardia?
Ed investire sì nelle energie alternative, ma altrettanto nella difesa dell’ambiente antropizzato, dei nostri centri storici, nella promozione del patrimonio artistico e culturale come fattore di consapevolezza e di coscienza comune, al di fuori di ogni tentazione nazionalistica. E si potrebbe continuare con altri esempi.
Non e’ forse da “trasformare” il nostro approccio ai temi della vita e della morte; la “cifra” secondo cui invitare, anche culture diverse dalla nostra, ad adottare una “biopolitica” che abbia il coraggio sempre esaltare la vita, anziché amministrare la morte, soprattutto balzando fuori dalla trincea in cui siamo costretti?
Indubbiamente, “trasformare” allude o meglio pretende una visione cui ricondurre, se non quella organicità che il razionalismo della modernità pretendeva, almeno un insieme di azioni coordinate che via via creino i primi tralci di reti tridimensionali entro cui trattenere e poi cristallizzare le turbolenze piuttosto che i mulinelli della liquidità sociale.
Insomma, non si prescinde dalle contraddizioni crude delle cose così come oggettivamente stanno, ma molto dipende dal nostro sguardo. La realtà non si imprime in noi sensorialmente; la percepiamo, la interpretiamo, infine la comprendiamo solo se siamo in grado di riconoscerle o darle un senso. Talchè la ricordiamo condensandola in quest’ultimo più che nel suo dispiegarsi. E’ così anche sul piano collettivo.
Quindi, il nostro sguardo, la visione, la cornice di senso e, dunque, i principi, le risorse, i criteri di valore cui intendiamo rapportarci. In definitiva, una trasformazione che, senza avere nulla di misticheggiante, neppure di asceticamente sofferto, meno che mai di ideologico, non ci sta nelle cose se non parte da quel tanto d’interiorità che il nostro sguardo tradisce.
Siamo di fronte ad un compito complesso su cui è necessario tornare, ma intanto è un importante guadagno che il nostro Manifesto abbia posto all’attenzione del Paese l’urgenza di un reale processo di trasformazione.
Domenico Galbiati

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