La lettura dei testi dei primi cristiani offrono sempre delle lezioni attuali e imperiture, senza tempo. Lo scritto di Diogneto del  II secolo d.C, su cui è recentemente intervenuta Politica Insieme ( CLICCA QUI )  offre spunti di riflessione e di guida d’azione nella prassi concreta.

Il capitolo XII denominato “La vera scienza” al punto 4 è di una pregnanza impressionante a fronte dell’avanzamento del progresso della scienza: “non si ha vita senza scienza, né scienza sicura senza vita vera, perciò i due alberi furono piantati vicino”.

Un’interpretazione letterale della frase riportata ci offre una sintesi della capacità di conoscenza degli uomini di progredire nel sapere scientifico e alla ricerca di senso del concreto quotidiano, immerso come è nella gioia e nei problemi da affrontare nel vissuto.

Il progredire della tecnologia impone di definire un corretto rapporto tra scienza e pratica di vita. Le sempre più diffuse applicazioni nel campo bioetico, dalla nascita alla morte, alleviano le sofferenze ma al tempo stesso rendono la scienza più invasiva con aspetti che sconfinano nella visione etica dell’uomo. Si pensi dal tema della procreazione assistita all’eutanasia. Qui i cattolici impegnati nel sociale devono fare fronte comune per affermare l’unicità della vita umana e l’inviolabilità della dignità personale nelle sue forme espressive.

Una componente d’uomo è la ricerca di senso che da sempre ogni uomo, credente e non credente, cerca di capire. In quest’ottica, la lettera a Diogneto offre uno spunto al punto 3 del capitolo VI dove si afferma “L’anima abita nel corpo, ma non è del corpo; i cristiani abitano nel mondo, ma non sono del mondo”, laddove è focalizzata l’attenzione all’anima oltre a vita materiale. L’uomo è capace di aspirare al bello attraverso l’arte, la pittura, la poesia, l’interrogarsi su se stessi e di coltivare la conoscenza nei suoi limiti possibile alla mente umana.

L’esistenza è un problema sempre aperto, un’esperienza continua, che non può mai concludersi definitivamente. Essa è costantemente protesa verso il futuro di cui l’uomo è continuamente preoccupato.

Sia consentito un accostamento con Michel de Montaigne quando questi afferma che “Noi siamo sempre al di là di noi stessi; il timore, il desiderio, la speranza ci lanciano verso l’avvenire”, a dire che gli uomini dovrebbero imparare a non essere troppo presuntuosi e ad accettare serenamente la loro condizione.

L’uomo deve accettare il suo destino di essere mortale per poter vivere meglio e deve riconoscere che sa ben poco, che la ragione ha dei limiti, che la scienza può sbagliare. Un aforisma de Montaigne afferma “que sais-je?”, il nostro che ne so? Il problema, però, non è tanto che cosa si sa o che cosa non si sa, quanto piuttosto che cosa si può e si deve fare.

Il pensiero di Montaigne è una riflessione distaccata sulle contraddizioni e le incoerenze proprie della natura umana unita ad un atteggiamento di grande tolleranza rispetto alle diverse posizioni, che conduce ad una semplicità non affatto  associata un’idea di povertà e minimalismo ma a ben vedere connessa  all’eccellenza e alla pienezza. In realtà essa, quando è autentica e non artifizio, è finezza, essenzialità, profondità.

Il sapere umano deve aiutare a relativizzare la ragione e ad essere consapevole che «dal cuore degli uomini escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultèri, avidità, malvagità, inganno, dissolutezza, invidia, calunnia, superbia, stoltezza», per usare le parole di Marco, 7,21-23, in modo da cercare i segni di una fraternità, all’insegna di una comune miseria, fra gli uomini di tutti i tempi e paesi.

In questo senso, la storia si scopre così una miniera di insegnamenti sulla natura debole e inferma dell’uomo, sulla sua condizione tanto ridicola quanto risibile.

A  mo’ di conclusione certamente non definitiva, il “que sais-je?” di Michel de Montaigne rimanda alla Lettera di Diogneto che al punto 8 del capitolo VI annota che “L’anima immortale abita in una dimora mortale; anche i cristiani vivono come stranieri tra le cose che si corrompono, aspettando l’incorruttibilità nei cieli”.  Infatti, il senso di assurdità del vivere e il continuo risorgere nella speranza e nell’impegno è tipico dell’etica cristiana che aiuta la ricerca del meglio, spogliato dai fronzoli dell’enfasi, del clamore, dell’ostentazione per vivere con semplicità e pensare con grandezza.

La Lettera di Diogneto è un invito alla ricerca di una felicità e nel modo migliore per conseguirla: da qui l’abbandono di ogni orgoglio intellettuale, l’accettazione dell’esistenza nei suoi vari aspetti, della tolleranza verso le nostre fragili illusioni, le nostre piccinerie per accettare appunto i piaceri che la vita ci può offrire, sopportando i mali e le avversità.

Bonaventura Marino

 

Immagine utilizzata: Pixabay

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