Quando un libro aiuta a capire i fatti. Chi pensava che il presidente Biden, prendendo il posto di Trump, avesse in ogni caso favorito l’Europa sta invece assistendo in questi giorni a un duro scontro tra Francia e Stati Uniti nella vicenda dei sottomarini.

E’ solo una conferma della originale tesi che George Friedman espone con pacatezza nel suo ultimo libro:” The Storm before the Calm” ( La tempesta prima della calma) pubblicato a New York da  Anchor Books e non ancora tradotto in italiano.

La tesi è anticipata in una succosa introduzione dove l’autore esprime la convinzione che gli esiti elettorali hanno sempre cambiato ben poco le cose in America. Non a caso il libro è uscito non dopo ma pochi giorni prima dell’esito delle ultime elezioni presidenziali. “Nessuno dei molti presidenti americani che si sono succeduti, sostiene l’autore, ha cambiato la direzione degli eventi, né tantomeno è riuscito a modificare la struttura di fondo della società americana”.

Rivolgendo il suo sguardo dai tempi della “invenzione dell’America” fino ai nostri giorni, Friedman individua processi che avvengono per lunghi cicli: quelli istituzionali, il primo dei quali si è concluso con la guerra civile nel 1865 e il successivo che è finito con la vittoria nella seconda guerra mondiale; e i cicli socio economici, l’ultimo dei quali è iniziato dopo il grande crollo del ‘29 ed è durato sino alla implosione della finanza e la crisi sistemica del 2008.

Nel decennio in corso (gli attuali anni venti) Friedman vede la convergenza dei due cicli e quindi delle forze che li hanno caratterizzati.  Questa convergenza è all’origine degli attuali problemi di un grande Paese, “dove l’unica realtà permanente è solo la terra sconfinata, mentre tutto il resto è costantemente reinventato”.

Dall’ultimo ciclo istituzionale è uscita una grande potenza imperiale, del tutto diversa da  quelle conosciute nella storia, da quella romana, a quella persiana (conquista, pace e commercio) peer non dire di quelle  nazista e sovietica, basate sulla brutale espansione militare: oggi la U.S.Force è presente in 150 Paesi in missioni più o meno importanti eppure, se si eccettua la guerra del Golfo, l’ America non ha più vinto una guerra dal 1945.  Non è quindi la forza militare il fondamento dell’impero americano.

Così come l’intenso ciclo socio-economico concluso con l’ultima crisi di Wall Street, e durato ottant’anni, ha portato gli USA a rappresentare da soli un quarto del PIL mondiale e di assistere alla crescita di un ceto medio di elevato livello. Eppure la tradizionale potenza industriale americana “è ormai un fantasma del passato in evidente declino”.  Lo provano le condizioni dei lavoratori dell’industria automobilistica, della chimica e dell’acciaio, che rappresentavano un pilastro della società americana, ed oggi non sono dissimili da quelle degli afro-americani negli anni settanta. Lo sviluppo è stato nel contempo inventato altrove con l’esplosione delle nuove tecnologie che rappresentano non solo il nuovo lavoro ma anche la cultura del futuro. Sono così entrati in ombra Chicago e Detroit, ma si sono arricchite Boston e san Francisco.

Per capire la complessità di questo grande Paese, secondo la analisi di Friedman, è sufficiente constatare come sia  venuta meno l’ambizione di voler esportare la democrazia e cambiare il mondo: i suoi cittadini ambiscono solo ad “avere un posto sicuro per vivere, comprendere le sue regole e vivere dentro queste”. Ciò non toglie certo l’ambizione di  egemonia, e i contrasti con la Cina lo confermano.

Poco importa se gli Stati Uniti non sono più apprezzati o amati come un tempo: nessuno degli imperi lo è mai stato, ma non per questo il loro potere è diminuito. Ecco perché le attuali difficoltà (“the storm”, la tempesta) altro non sono che fatti normali per la storia e per la vita dell’America.

Guido Puccio

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