A quattro, cinque ore dalla chiusura dei seggi si è tentati di buttarla così: Letta ha vinto; Conte non è pervenuto;  Salvini e la Meloni possono vicendevolmente complimentarsi di aver massacrato la destra; Berlusconi è stato a guardare.

Ovviamente per essere confermata o meno e soprattutto formulata in maniera più ragionata e puntuale, questa stringata interpretazione del dato elettorale esige ben altra ed approfondita analisi.

Con tutti i risultati alla mano. Anche quelli dei centri minori, per quanto siano le maggiori città a fare tendenza, forse più sul piano della comunicazione che non in ordine alla effettiva sostanza politica delle cose.

L’unico elemento di valutazione che fin d’ora appare incontrovertibile è rappresentato dall’ampia, univoca e costante crescita di una astensione  che concerne sia il voto amministrativo che quello politico ( vedi Siena) e che, diversamente da quanto succedeva in altre occasioni, non può più essere attribuita ad una distratta disaffezione, ma piuttosto alla infastidita stanchezza dell’elettorato a fronte di un apparato politico che non scalda i cuori, non accende il pensiero, spegne la voglia di prendere parte attiva alla vita della collettività.

Si poteva forse sperare che la novità sostanziale del governo Draghi colmasse, almeno in parte, lo iato che separa, in buona misura, la società civile dal sistema politico-istituzionale, ma evidentemente l’immagine delle attuali forze in campo è tale da non potervi trasferire quel più di credito che il Presidente del Consiglio sta conquistando nel Paese e soprattutto al di là dei nostri confini.

Anche laddove i candidati del PD hanno in larga, larghissima misura strapazzato, fin dal primo turno, a Milano, Napoli e Bologna, i loro avversari,  non sono stati in grado di mobilitare l’elettorato così da arrestare la corsa all’astensione.

Si potrebbe dire che hanno vinto in discesa ed in qualche caso la pochezza del loro “competitor” di destra è stata tale da configurare una sorta di involontaria desistenza.

Peraltro appunto Bologna, dove l’apparato di partito è tuttora più forte che altrove ed anche in virtù di questo, è l’unica città in cui, sia pure per soli due punti, si è andati oltre la soglia simbolica del 50%.

Nei commenti che i vari esponenti di partito rilasciano in queste ore di questa preoccupazione non c’è alcuna traccia.

Come se andasse bene così. A meno che addirittura, come è successo in altre occasioni, qualcuno si tiri su a dire che la scarsa partecipazione al voto è un segno di modernità e di omologazione agli altri più avanzati Paesi europei.

Va, altresì, considerato come – sembra sia successo a Torino e non è escluso che il dato sia generalizzabile – i maggiori picchi di astensione si siano raggiunti nelle periferie delle grandi città.

Il che concorrerebbe a qualificare, a maggior ragione, l’astensione come fenomeno di emarginazione e di sostanziale esclusione dal discorso pubblico di importanti fasce di ceto popolare.

Il che non è necessariamente in contrasto con una lettura che, al contrario, veda l’astensione non solo come atteggiamento di indifferenza e di distacco, ma, piuttosto, quale attiva presa di posizione diretta a segnalare una critica puntuale, un dissenso marcato fino all’insofferenza nei confronti di un apparato politico mummificato.

Certo non si può parlare di “partito dell’astensione”, ma neppure immaginare che quest’ultima sia solo una forma di lassismo neghittoso, una palude grigia ed ottusa che merita di essere abbandonata alla sua inerzia.

In ogni caso, se il rilievo politico di questa elezione amministrativa è fuori discussione, ciò non toglie che, come sempre, le dinamiche locali si allineino secondo criteri che poco o nulla hanno a che vedere con l’orientamento che l’elettorato assume quando di tratta di rinnovare il Parlamento.

Insomma, la partita è aperta e la corsa pare essersi avviata con un certo rovesciamento di fronte che vede la sinistra più “resiliente” di quanto non apparisse fino a qualche tempo fa ed, al contrario, la destra, che pareva avere il vento in poppa, in evidente difficoltà, soprattutto in quanto a credibilità di una leadership di cui, per la verità, neppure si vede traccia.

Domenico Galbiati

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