Donald Trump ha appena detto alla BBC che non si fida “abbastanza di nessuno”. In un mondo instabile, dai sentimenti e dalle relazioni volatili e cangianti sia tra i singoli sia tra le nazioni, il punto è  l’approfondire, però, la qualità e le conseguenze di una tale generalizzata diffidenza machiavellica.

Il mondo non cambia mai e così si comprende il senso dei corsi e dei ricorsi storici su cui insisteva tanto il  Vico. Con la chiosa marxiana su ciò che si ripete finisce, spesso, per assumere sembianze della farsa. E questo ben calzerebbe con l’idea – lui l’ha molto di se stesso – che con Trump ci si possa trovare dinanzi alla versione più moderna ed efficace, più disincantata, del Principe rinascimentale. Difatti, anche per il Presidente degli Usa la politica non c’entra niente con i principi morali e con quelli religiosi. Anche se, in questo secondo caso, Trump si sente incaricato direttamente da Dio. Ma questa non è religione. Semmai blasfemia.

Questo sembra essere lo spirito dei tempi. Eppure, il mondo, soprattutto dopo i due grandi conflitti mondiali del secolo scorso, sembrava orientato a contenere i peggiori machiavellismi. E con essi, a mitigare pure gli insegnamenti del coevo Guicciardini con il suo invito a curare esclusivamente il proprio “particulare”.

Ed è bene sottolineare, sempre guardando al mondo com’è oggi, il voluto uso di quel contenere e di quel mitigare. La sostanza è stata però che si è provato – dopo tanto sangue versato a causa dei nazionalismi del `900,  che furono fenomeni non solo europei, giacché si sparsero a macchia d’olio anche in Estremo Oriente e nel Continente americano – a definire  il Diritto internazionale, partendo dal Processo di Norimberga e dalla successiva Dichiarazione dei Diritti dell’uomo. Così, si posero le basi, complice anche la creazione delle Nazioni Unite, di ciò che chiamiamo multilateralismo. E poterono finalmente andare di pari passo altri processi sistemici mondiali: quelli legati alla creazione del Fondo monetario internazionale ed alla Banca mondiale; l’introduzione di  più largamente condivise unità di pesi e di misure; la definizione delle regole dei brevetti mondiali, cosa di cui avevano pagato, in America, le conseguenze geniali inventori come Meucci e Tesla; lo scambio libero delle conoscenze e la condivisione delle scoperte scientifiche, oltre che le loro applicazioni tecnologiche. Tutto il frutto di quel che potremmo chiamare una diversa cultura politica internazionale, finì per far sbocciare a livello dell’intero Pianeta una nuova visione delle relazioni umane in congiunzione e connessione con quello dello “scambio” economico, e ciò che chiamiamo oggi “globalizzazione” di culture, di prodotti e di sistemi economico – finanziari.

I risultati sono stati, e lo sono ancora, sotto gli occhi di tutti. Il mondo è stato in qualche modo meno barbaro che nei secoli precedenti. Anche se l’idea di una pace globale e, come recita il nostro art 11 della Costituzione, il ripudio concettuale della guerra come metodo per la soluzione  conflitti restano ancora lontani dall’essere raggiunti pienamente

Sembra che il mondo oggi, soprattutto i paesi più armati e più aggressivi, e ce ne sono troppi ad Occidente e ad Oriente, sia in procinto di tornare in qualche modo ad 80 anni fa.

Non è un caso, anche se mutano i contesti, se con talune parole d’ordine e di posture, come se diffusi da una malattia pandemica, risorgono i sovranismi.  Che battono soprattutto, e con accanimento, il tam tam contro le organizzazioni internazionali: Onu, Nato, Unione europea, corti internazionali penali, ecc. ecc. Noi, in Italia, ne abbiamo l’esempio più espressivo in Matteo Salvini il quale, comunque, finge di dimenticare quanto la sua Lombardia e il suo Veneto leghisti debbano ai processi economici avviati proprio grazie alla cultura politica e a criteri economici che vorrebbe cancellare.

Le motivazioni, gli accenti e le argomentazioni sono diverse. Ma al fondo, c’è l’istinto alla regressione verso ciò che il mondo fu fino alla Seconda guerra mondiale. Dopo di essa, infatti, si avviò un fervore intellettuale, politico ed istituzionale che aveva un obiettivo infinitamente più importante di altri: evitare le guerre che avevano provocato decine e decine di morti in tutto il mondo. Tentativo che era fallito dopo il precedente Conflitto mondiale. Il mondo, nonostante avesse già toccato con mano la trasformazione dell’arte della guerra, e fosse già in grado di capirne le conseguenze sempre più terribili per la popolazione civile, ebbe bisogno ancora di circa 50 milioni di uccisi in Europa, delle due bombe atomiche sganciate sul Giappone, della sistematica eliminazione di popolazioni inermi – ebrei, rom, polacchi, russi, menomati psichici, in Europa, e dei cinesi finiti sotto la spietata occupazione nipponica in Oriente- per andare oltre la più che limitata Convenzione di Ginevra, ferma alle regole da rispettare durante le guerra.

Era inevitabile che si pensasse subito ad affrontare i problemi della Giustizia. E così, giunsero i tribunali penali e la Corte europea dei Diritti dell’uomo mentre si costruiva il cosiddetto Spazio giuridico europeo per la tutela di cittadini ed imprese impegnate oltre confine. L’introduzione di regole condivise è stato diretto al commercio, alla tutela della salute, all’agricoltura e all’alimentazione, al lavoro, ai problemi sanitari e alla scienza.

Sarà un caso se molto di questo impegno multilaterale ha portato alla crescita della popolazione mondiale, al miglioramento delle sue condizioni di vita e di salute, alla più libera ed ampia circolazione delle persone, delle idee e dei prodotti necessari alla nostra vita quotidiana?

Potremmo andare avanti con un lunghissimo elenco di quel che significa concepire il mondo come un tutt’uno. In cui è stato dimostrato, sia pure con disparità, ritardi e contraddizioni, quanto stati  e popoli diversi, visioni ideologiche differenti, pluralità religiose, etniche e culturali non solo possono convivere, ma addirittura collaborare.

Tutto ciò si può vedere come principale fondamento, e cornice, del quadro della globalizzazione. Per la quale, oramai, è ineludibile e, semmai, per superarne evidenti limiti, disequilibri e contraddittorietà è richiesta non la fine delle istituzioni sovranazionali, bensì il contrario e cioè fornire loro più possibilità d’intervento e di sanzione.

Invece, guardando ai comportamenti di Putin e di Trump, e di tutti i loro seguaci, camuffati o meno che siano, c’è qualcuno secondo cui è venuto il momento per tornare a dare mano libera a quelle visioni nazionalistiche e sovraniste che, per secoli, sono stati la causa di quasi tutti i conflitti, ufficialmente o meno che fossero dichiarati. E, per andare al tema difesa, tutto ciò serve a dare mano libera a quel sistema “militare industriale” – come lo definiva con sospetto Dwight Eisenhower che, da generale e da Presidente degli Usa, ne conosceva voracità e capacità di influenza – tuttora dietro le guerre dei nostri giorni.

Ai cristiani che corrono a schierarsi con questa o quella parte, come se le distruzioni e i crimini in atto fossero una partita di calcio, bisognerà pure ricordare, con il messaggio evangelico, il fondamentale ruolo che politici ispirati cristianamente hanno avuto per far nascere e far sviluppare un’altra idea delle regole mondiali. Non è un caso se la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo porta la firma di Maritain e se ad Adenaur, De Gasperi e a Schumann si debba l’avvio del sogno europeo.

Spiace davvero ascoltare politici che si dicono cattolici sparare contro gli organi che la comunità mondiale si è data nei decenni “scommettendo” sulla possibilità di limitare o contenere il peggio. Dimenticando che la Chiesa, invece, ha sempre sostenuto, e nonostante tutti i loro limiti, tutti i consessi mondiale in cui può presentarsi occasione di dialogo e di cooperazione. Dimenticando persino la proposta di Benedetto XVI di giungere alla creazione di un Governo mondiale della finanza e dell’economia, e cioè dell’ambito in cui gli stessi conflitti  armati vengono spesso concepiti o sfruttati.

Questa della difesa degli organismi multilaterali, insomma, è qualcosa che trascende lo scontro politico domestico. E richiama un impegno particolare, se non principale. Anche noi italiani siamo particolarmente chiamati alla tutela e alla difesa del sentimento e dell’operosità comune europea che va implementata, non ridotta o mortificata. Ed è necessaria un’azione politica, molto simile a quella che venne sviluppata nei bui anni dalla metà del ’30 del secolo scorso al ’45.

Dobbiamo educarci, ed educare chi ci sta vicino, a capire quali sono le battaglie che meritano più di altro. E quella per un mondo aperto e fatto di molteplicità, ciascuna garantita, è la più importante da affrontare.

Giancarlo Infante

 

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