1.Con la fine dell’estate, è ripresa la scuola e sono state riavviate, pur con molti ostacoli e difficoltà, le attività didattiche. Dopo l’ordinaria pausa agostana è ripartita anche la celebrazione dei processi, pur se l’accesso ai palazzi di giustizia è rimasto contingentato non in modo indiscriminato, anche in danno degli operatori qualificati: continuano le restrizioni degli accessi e le limitazioni dell’orario di apertura degli uffici ovvero, in via residuale e per gli uffici che non erogano servizi urgenti, la chiusura al pubblico, con regolamentazione dell’accesso ai servizi previa prenotazione, e con convocazioni ad orari fissi. Il tutto con allungamento dei tempi per adempimenti come il rilascio delle copie, le iscrizioni a ruolo, le consultazioni di registri e di fascicoli.
2. Qual è a oggi lo stato della giurisdizione in Italia? Richiamando la situazione di cui si faceva stato su questo sito prima della pausa feriale, il quadro non pare gran che migliorato. L’abrogazione dell’art. 83 D.L. n. 18/2020, con decorrenza successiva al 30 giugno, ha consentito la ripresa della trattazione dei processi in praesentia; di lì a poco è subentrato l’art. 221 co. 4 l. 77/2020 che, in sede di conversione del secondo decreto legge COVID, ha rispristinato quanto abolito con la legge di conversione del primo, cioè la facoltà di disporre, per i procedimenti civili, l’invito al deposito di nota di trattazione scritta in presenza di esigenze di prevenzione epidemica, ove ritenuto opportuno e necessario in rapporto alle singole specifiche esigenze di tempo e di luogo.
Il problema è che tale facoltà è stata di fatto resa standard, pur in presenza del calo dei contagi nel mese di luglio, con spurio e quasi apodittico richiamo alle esigenze di prevenzione epidemica, a prescindere dalla effettiva condizione epidemiologica territoriale e degli uffici giudiziari in particolare, in qualche caso facendo riferimento alle linee guida disposte dal Consiglio Superiore della Magistratura, la cui competenza in materia non è così acclarata. L’esito è la chance di rendere ordinaria una modalità di trattazione del processo civile che è il contrario della sua intrinseca – e consacrata – oralità, con la lesione del contraddittorio, e in alcuni casi con la negazione degli stessi princìpi di difesa: basta pensare al fatto che gli inviti alla trattazione scritta devono essere formulati almeno trenta giorni prima dell’udienza per cui, con riferimento alle prime udienze, i convenuti non ne ricevono affatto comunicazione; infatti si costituiscono entro i venti giorni precedenti, quando la comunicazione già è stata fatta al solo attore.
3. Ancor più grave tale prassi si manifesta nei processi di lavoro, dove non solo il resistente non riceve la comunicazione, ma si impedisce per la prima udienza – con l’inibizione della partecipazione delle parti ai fini del loro libero interrogatorio -, il tentativo di conciliazione, pur obbligatorio ex lege: nella migliore delle ipotesi esso è affidato al successivo invito all’offerta ex art. 185 bis cod.proc.civ.
Addirittura grottesco è poi l’invito del Presidente del Tribunale nelle cause di separazione giudiziale tra coniugi, rivolto pur esso al solo ricorrente per le medesime ragioni, a rendere noto prima dell’udienza se intenda comparire ovvero se vi sono motivi che possano condurre alla trasformazione del rito in consensuale!
Dunque, i processi civili finiscono per essere per lo più trattati da remoto; quelli a partecipazione necessaria delle parti, come nel caso dell’escussione testimoniale, sono spesso rinviati a dopo il 30 ottobre; in ogni caso, viene ridotto il ruolo d’udienza e sono disposti rinvii d’ufficio, che prolungano indebitamente la già intollerabile durata complessiva dei procedimenti.
4. I processi penali vengono invece ormai trattati ordinariamente, anche se con limitazione per numero di chiamata, normalmente non oltre trenta per udienza. La loro trattazione avviene non di rado in condizioni di assembramento, poiché l’accortezza usata – quando usata! -, di indicare a ora fissa l’orario di chiamata, o quantomeno la fascia oraria di riferimento, si scontra con l’inevitabile presenza in aula, o in prossimità della stessa: a volte in condizioni di grave disagio, perché all’aperto, o comunque in mancanza di adeguate strutture di attesa, come avviene al Tribunale di Sorveglianza di Roma, anche per i difensori e le parti dei processi precedenti non ancora conclusi, ovvero di quelli successivi. Costoro hanno necessità di consultare i fascicoli o di interloquire prima dell’avvio del giudizio col P.M. o col cancelliere o con lo stesso Giudice; l’assembramento senza rispetto del distanziamento si aggrava quando vengono chiamati processi con plurime parti.
Al di là delle norme prima menzionate, scritte male e pensate peggio, il problema sembra risiedere, a prescindere dalla buona volontà degli operatori – non così scontata: molti cancellieri e non pochi magistrati paiono preoccupati esclusivamente del rischio contagio -, nella impossibilità di dettare una direttrice unitaria a fronte della congerie di condizioni e situazioni differenti da ufficio giudiziario ad altro. L’inevitabile quanto intollerabile effetto è quello di acquisire per ordinaria la babele di prassi difformi, e di autonomia praeter – se non contra – legem: essa stessa negazione di una giustizia che dovrebbe essere equa ed uniforme, come è ancora scritto nelle aule di udienza.
Renato Veneruso
Pubblicato dal Centro Studi Rosario Livatino ( CLICCA QUI )