È un titolo intrigante, ma bivalente. Molti ne svilupperebbero la seconda parte, che riguarda il Piano Nazionale per la Ripresa e la Resilienza (PNRR) ai sensi del programma europeo Next Generatio EU, magari criticando che nel Piano tutte le spese indicate siano definite “investimenti”, mentre una parte significativa di esse non potranno essere classificate, ai sensi delle denominazioni contabili, che come “consumi pubblici” (così per le spese per il personale e la loro formazione); o che in vari punti del PNRR non si presentino dei progetti, ma semplici motivazioni d’ordine politico e tecnico sul significato delle linee d’azione indicate, necessarie per dimostrare, in contraddittorio con la Commissione Europea, la necessità di interventi indispensabili per coprire le carenze presenti nei diversi campi o per avviare nuove linee di sviluppo, utili per poter impostare i progetti di massima, prima, e i progetti operativi, poi; o che il PNRR sia un piano con una forte impostazione dirigistica statale, inappropriato per un documento di così ampia portata e durata che avrebbe dovuto, invece, derivare da processi di aggregazione delle istanze provenienti dai diversi saperi: quelli dei centri di competenze dello Stato e degli enti pubblici territoriali, fra di loro e con i saperi espressi dalla società organizzata. Anche nel caso in esame, l’approccio corretto non avrebbe dovuto essere il tipo dirigistico statale e non si esce dal dirigismo concedendo audizioni temporanee più o meno pletoriche a partiti politici, organizzazioni rappresentative del mondo produttivo (datori di lavoro e lavoratori), del mondo culturale, del Terzo settore. Si entra nella relazionalità lavorando insieme, confrontando i propri valori, dalla declinazione dei quali emergono gli obiettivi finali particolari e, con le opportune mediazioni, quelli condivisi dalla comunità dei soggetti; o altre considerazioni critiche di varia natura.

A proposito dell’ultima considerazione, sarebbe assai utile che INSIEME inserisse nel suo sito web l’intero PNRR di cui si parla (un poderoso documento di 2478 pagine, allegati compresi) e aprisse un blog, con il coinvolgimento di esperti di partito o di esperti simpatizzanti che tengano vivo un dibattito che sicuramente non mancherebbe di esserci che darebbe modo a INSIEME di dare una notevole esemplificazione del suo metodo di azione politica: un processo di aggregazione delle istanze provenienti dai vari saperi.

Io, invece, vorrei richiamare l’attenzione di chi legge sulla prima parte del titolo: il “lavoro buono”. Buono, come bene, non è pre dato; dipende dagli obiettivi finali del soggetto che vàluta, i quali discendono dai valori posseduti, a loro volta declinazione dei principi fondanti (l’etica) del soggetto. L’evidenzazione dei valori è essenziale a livello di comportamento politico. L’azione politica deve essere informata ai valori posseduti dagli attori, i quali dovranno impostare la propria azione affinché i propri valori si affermino, cioè che la pólis sia governata alla luce dei propri valori, e la sana lotta politica è quella che si gioca fra gruppi di persone che hanno valori differenti e antagonistici; non già da gruppi che si combattono avendo però valori simili: questa è una lotta di potere.

Per una persona che abbia la sua etica fondata sulla Dottrina sociale della Chiesa, i principi fondanti che la guidano sono la centralità della persona e la fraternità fra le persone, che completa la centralità della persona, dando dignità alle persone che compongono una comunità. Centralità e dignità della persona costituiscono l’unica via attraverso la quale si realizza lo sviluppo umano integrale: tutti gli aspetti della persona e tutte le persone.

Ciò avendo premesso, si può dire che il lavoro, fattore primario dell’attività economica e chiave di tutta la questione sociale, non deve essere inteso soltanto per le sue ricadute oggettive e materiali, bensì per la sua dimensione soggettiva, in quanto attività che permette l’espressione della persona e costituisce quindi elemento essenziale dell’identità personale e sociale della donna e dell’uomo. Il lavoro non è necessario solo per l’economia, ma per la persona umana, per la sua dignità, per la sua cittadinanza e anche per l’inclusione sociale. Tutto questo porta alla presa di coscienza che, mentre in passato era considerato “povero” chi non poteva accedere a livelli decenti di consumo, oggi “povero” è, oltre a chi si trova nella predetta situazione, anche chi è lasciato o tenuto fuori dai circuiti di produzione di beni (e quindi è costretto all’irrilevanza economica) o vi è inserito con un lavoro non dignitoso (e quindi è costretto all’irrilevanza umana); per essi è invalso l’uso del termine working poor.

Al contrario, con il lavoro (se il lavoro è dignitoso e realizza la sua autonomia personale, punto essenziale della sua dignità), l’essere umano partecipa allo sviluppo economico, sociale e culturale dell’umanità; dà prova dei propri talenti.

Ma che cosa significa avere un lavoro dignitoso? Significa che sia: i) decente, di qualità, per l’attività svolta, l’ambiente di lavoro in cui essa viene svolta, la sua autonomia decisionale, l’interazione con i colleghi e con l’organizzazione, la capacità di far realizzare la persona del lavoratore e le sue possibilità di crescita e di miglioramento; ii) avere una remunerazione giusta; iii) avere una buona copertura di tipo previdenziale nei confronti di malattia, infortuni, invalidità, disoccupazione e vecchiaia; iv) produrre cose buone (materiali così come immateriali e relazionali) per il lavoratore, la sua famiglia e per il bene comune della collettività; v) rispettare l’ambiente naturale.

Le due ultime caratteristiche sono sovente ignorate. Si sente dire che quella certa iniziativa è positiva perché crea occupazione (che una certa opera pubblica ha da farsi perché crea occupazione; addirittura sentir dire, nei paesi di produzione – con un accento di positività – che la produzione di foglia di coca e la sua lavorazione in pasta di coca e in polvere di cocaina dà lavoro a migliaia di persone – senza pensare a quanto male faccia la cocaina nei paesi di consumo – o sottolineare, con un che di compiacimento, che la liberalizzazione della produzione e della commercializzazione di cannabis sativa nello Stato statunitense del Colorado ha fatto aumentare in modo significativo occupazione e prodotto interno lordo dello Stato o che la progettazione, produzione e manutenzione di una certa arma dà lavoro a migliaia di persone o che un certo stabilimento inquina fortemente l’ambiente naturale, ma non può essere chiuso perché genera molti posti di lavoro) senza avvertire la necessità di scendere in profondità: lavorare è premessa per avere la produzione di “cose”, ma occorre che queste cose siano “cose buone”, siano “beni”. Non ci si può fermare all’attività produttiva, al flusso di reddito che il lavorare apporta al lavoratore e alla sua famiglia, alla stessa realizzazione della personalità del lavoratore. È fondamentale saper distinguere fra produzione buona e quella non buona perché svolge attività incompatibili con principi eticamente condivisi – come la produzione e il commercio di armi, la gestione del gioco d’azzardo, forme di produzione e di gestione che non rispettino la giustizia sociale, non rispettose del valore della vita umana, della salute delle persone o dell’ambiente naturale, e quindi fondate sullo sfruttamento, diretto o indiretto, del lavoro e delle risorse naturali, nelle economie più ricche così come nelle economie più povere, o che mirano a sostenere regimi politici dittatoriali o razzistici. Non è sufficiente lavorare, ma è necessario che da quest’attività sgorghino “cose buone”. Altrimenti, il lavoro non compie la sua missione, che consiste nel mettere a disposizione della propria comunità “beni” e non semplicemente “cose” o nel produrre beni per metterli a disposizione di altri, esportandoli, per dare agli altri questi beni di cui essi abbisognano o per avere dagli altri beni che s’importano in cambio.

L’umanità ha così tanto bisogno di avere beni eccellenti – in presenza di risorse scarse – che è un non senso che così tanti lavoratori producano così tante “cose” con bassa o nulla bontà o che sono dei mali. Il fatto che queste cose abbiano persone disposte a pagare per averle non è motivo eticamente sufficiente per produrle. In altre parole, anche nei confronti del lavoro occorre applicare l’analisi sull’eticità del suo risultato, per cui il lavoro costituisce un obiettivo intermedio per il raggiungimento dell’obiettivo finale della disponibilità di beni materiali e immateriali, la sua libertà, la creazione di beni relazionali e la realizzazione della propria persona,

Le parole precedenti ripropongono il tema della presenza di una vera cultura del lavoro. nella quale la persona umana è l’obiettivo finale (l’assoluto etico) rispetto al quale il lavoro è l’obiettivo intermedio principale, anche se non di solo lavoro vive l’uomo. E in verità, dai contenuti di diversi documenti della Dottrina sociale della Chiesa possiamo creare la seguente sequenza etica del lavoro: il lavoro è un bene dell’uomo, per l’uomo e per la comunità; l’uomo ha il primato sul lavoro, perché il lavoro è per l’uomo e non l’uomo per il lavoro e per l’economia; il lavoro ha il primato sul capitale e non il lavoro è al servizio del capitale; in sintesi, la fabbrica (lavoro e capitale) è per l’uomo e non l’uomo per la fabbrica.

Il lavoro riveste primaria importanza per la realizzazione dell’uomo e per lo sviluppo della società e per questo occorre che esso sia sempre organizzato e svolto nel pieno rispetto dell’umana dignità e al servizio del bene comune. Così dicendo, si dà al lavoro, all’attività produttiva, all’economia un’impostazione antropologica; se così non fosse, si finirebbe per trattare il lavoro quale semplice “forza lavoro”, alla stregua di qualsiasi altro fattore produttivo, di qualsiasi altra fonte di energia.

Questa nuova cultura del lavoro non può instaurarsi se non a séguito di un comune sforzo educativo che aiuti i giovani e i non giovani a capire tutte le dimensioni del lavoro. La dimensione non solo oggettiva, ma anche la dimensione soggettiva, che non può non essere sociale, oltre che individuale. Il lavoro come occasione di formazione e di sviluppo personale; il valore del lavoro che dipende soprattutto dalla persona che vive il lavoro, ma che dipende anche da un corretto sviluppo del lavoro e da una chiara visione dei lavori, dei diversi tipi di lavoro compresi nella loro essenza, e non semplicemente nei loro aspetti superficiali e alla moda.

Occorre richiamare anche un altro aspetto del lavoro. Esso si realizza normalmente in un ambiente sociale, in contatto e/o in collaborazione con altri lavoratori e con altri soggetti economici. È allora necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione, in toto o compartecipata, dell’impresa che concorrono a formare. Che operi cioè il modello partecipativo nella forma di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale normale e alle scelte strategiche dell’impresa e anche ai risultati economici della gestione stessa: una compartecipazione che permetta ai lavoratori di essere e sentirsi coinvolti appieno nella comunità produttiva di cui sono parte. Non meri esecutori di scelte altrui, come se fossero soggetti inermi, ma attori responsabili all’interno della comunità produttiva che si chiama impresa, e da ciò non potranno non discendere anche rilevanti miglioramenti nell’impegno dei lavoratori, e quindi anche nei risultati economici dell’impresa stessa. E il medesimo può dirsi ovviamente, mutatis mutandis, anche per gli enti pubblici.

Infatti, le possibilità di sviluppo di ogni lavoratore/lavoratrice e i risultati del lavoro sono tanto migliori quanto più ha modo di esprimersi l’intelligenza di chi lavora, quanto più è apprezzata e stimolata (e non, invece, osteggiata) la sua intraprendenza, quanto più ampia è la libertà di conseguire obiettivi condivisi. La condivisione è essenziale perché, quando lavorano, l’uomo e la donna svolgono due tipi di azione: una di tipo transitivo, poiché l’agente cambia la realtà in cui vive, ma anche una di tipo immanente, poiché l’agente cambia se stesso. Così facendo, il lavoratore riesce a realizzare le condizioni per un’autentica libertà del lavoro, poiché riesce a realizzare la sua espressione creativa che arreca al lavoratore la soddisfazione diretta dell’essere padrone di se stesso. Se vien meno questo cambiamento, espressione della realizzazione della propria persona, il lavoratore – inserito in un luogo di lavoro in cui egli non è altro che uno dei tanti input trasformati, secondo certe regole prefissate, in output, e non un luogo in cui si forma e si trasforma il suo carattere – non comprende il senso di ciò che sta facendo e il lavoro diventa schiavitù (mancanza completa di possibilità di operare per realizzare, creandolo lui stesso, il proprio disegno di vita) e la persona può essere sostituita con un robot.

In conclusione, come dice sempre Papa Francesco, il lavoro ha da essere libero, dignitoso, creativo, partecipativo, solidale affinché crei vera inclusione sociale. Conseguentemente, il mercato del lavoro, per essere considerato efficiente – non certo, come taluni ritengono, nel senso di essere organizzato in modo tale da mettere, a disposizione delle imprese, forza lavoro con elevata produttività, basso costo per unità di lavoro ed elevata mobilità funzionale, settoriale e territoriale (questo semmai è il concetto di efficienza che interessa il lato della domanda di lavoro, il lato del padrone dell’impresa) – bensì dev’essere in grado di permettere ad ogni persona in età lavorativa di poter soddisfare i propri bisogni e di realizzare la propria persona attraverso l’espletamento di un’attività lavorativa, in un contesto in cui questa può essere trovata in tempi rapidi e viene svolta al meglio della capacità lavorativa e produttiva del lavoratore./lavoratrice

Per creare un mercato del lavoro efficiente non sono sufficienti tradizionali politiche dell’occupazione; occorrono specifiche politiche attive del lavoro, le quali mirano a permettere ad ogni persona un accesso rapido ed equiprobabile ai posti di lavoro vacanti, cercando di creare le condizioni affinché il diritto al lavoro di ogni persona venga reso possibile. Esse si caratterizzano per voler direttamente incidere sulla struttura del mercato del lavoro; favorire l’adeguamento delle caratteristiche di coloro che aspirano a un’occupazione alle esigenze della domanda di lavoro; creare possibilità occupazionali attraverso una diversa organizzazione del mercato del lavoro.

Quale politica attiva allora, se non quell’insieme di azioni che forniscono ai lavoratori in difficoltà un supporto di informazioni e di orientamento e i più adeguati strumenti rivolti alla formazione e alla valorizzazione delle risorse umane, per accrescere le possibilità di successo nella ricerca dell’occupazione, favorendo l’adeguamento delle caratteristiche di chi cerca lavoro alle esigenze della domanda? Tutto ciò che va in questa direzione è prezioso: pensiamo alla creazione di percorsi formativi di terzo livello, quali gli istituti tecnici superiori (o istituti economici superiori o istituti agrari superiori ecc.); pensiamo alla cooperazione scuola-lavoro, costruita sulla convergenza degli obiettivi formativi e dell’una e dell’altro; pensiamo al contratto di apprendistato da realizzarsi senza limiti d’età. Là ove i contratti di apprendistato sono realizzati coll’approccio predetto – come in Germania – il tasso di disoccupazione giovanile risulta in linea (di poco superiore) con il tasso di disoccupazione medio complessivo.

Ad ogni modo, non si può fare a meno di specifiche misure a favore delle categorie deboli del mercato del lavoro (giovani, donne, persone disabili); cioè misure finalizzate alla creazione diretta di occupazione per queste categorie di persone, tramite riserva di posti di lavoro nel settore privato imposte per legge, sovvenzioni a imprese private per l’assunzione di persone appartenenti a queste categorie deboli, creazione diretta di posti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche riservati a queste categorie, titoli di merito riconosciuti, nelle gare d’appalto pubblico, alle imprese che – oltre che dimostrare responsabilità fiscale e ambientale e si realizzino perseguendo fini diversi dalla mera massimizzazione del profitto e applichino norme di lavoro pienamente in regola con il principio del “lavoro dignitoso”, quindi anche inclusive, non discriminatorie e con elevato valore etico sul piano dei rapporti personali interni così come sul piano della distribuzione del reddito prodotto e della crescita sociale dei suoi membri nonché sul piano dei rapporti di reciprocità e di rete con l’esterno – abbiano significative presenze di lavoratori disabili e svantaggiati, in generale.

In effetti, si dice che innovazione e globalizzazione hanno portato a una frattura fra sviluppo e occupazione. Si tratta di una falsa frattura. In realtà, hanno portato a una frattura fra sviluppo e qualsivoglia occupazione. Le politiche attive del lavoro hanno come missione di ricomporre questa frattura per poter includere nel mondo del lavoro le persone deboli del mercato del lavoro. Inoltre, esse non puntano tanto alla creazione di posti di lavoro, ma piuttosto di occasioni lavorative, e cercano di far realizzare il diritto al lavoro più che il posto di lavoro. Prendono in considerazione, non soltanto l’accesso al tipico lavoro dipendente, ma anche combinazioni fra lavoro dipendente e lavoro autonomo (singolo o associato) e contemplano anche la possibilità di permettere diverse esperienze lavorative e ampia mobilità intraoccupazionale.

Non appartiene, invece, al novero delle politiche attive del lavoro il cosiddetto “reddito di cittadinanza”, cioè assicurare ad ogni cittadino/cittadina, ad ogni famiglia, un reddito minimo adeguato alle sue esigenze di vita, per cui, se il suo reddito (derivante dall’attività economica svolta) non arrivasse alla soglia minima prevista, si avrebbe diritto a un trasferimento di risorse pubbliche per l’entità della differenza fra quest’ultimo e il reddito ottenuto dalla propria attività di mercato o per altra via. Risponderebbe al principio di “libertà dal bisogno”, secondo il quale tutte le persone avrebbero il diritto di poter disporre di un livello minimo di reddito (proveniente da propria attività di produzione o da trasferimenti pubblici), indipendentemente dalle proprie esigenze, dai propri meriti, dalla propria condizione sociale.

Detto così, ciò significherebbe una mera attività assistenziale (di solidarietà passiva). In certi casi, non è possibile che questa (e le attività assistenziale pubbliche nonché le attività di volontariato sociale sono normalmente impegnate in questa direzione), ma il principio di una società sana (cioè di sani valori) dovrebbe dare spazio a quest’azione, evitando però che essa diventi una regola che svilisce la dignità della persona. Così non fa la solidarietà attiva, la quale vorrebbe che il reddito di cittadinanza non fosse una mera erogazione assistenziale, bensì venisse impiegato, di massima, come affiancamento a programmi d’inserimento o di reinserimento lavorativo stabile di livello consono alla qualificazione lavorativa del lavoratore e, se questa fosse carente, incorporando anche attività di qualificazione lavorativa. Quindi, più che un “reddito di cittadinanza”, un “reddito d’inclusione sociale” o, meglio, un “reddito di partecipazione”, intendendo la “partecipazione” come l’apporto di un contributo sociale (cioè alla società) che ognuno dà e che, per quanti sono in età lavorativa, potrebbe essere soddisfatto da un lavoro contrattualizzato (dipendente o autonomo, a tempo pieno o parziale), da lavori di comunità, dal servizio civile, dall’istruzione, dalla formazione professionale, dalla ricerca attiva di occupazione, dalla cura domestica di persone non autosufficienti o dal volontariato regolare presso un’associazione riconosciuta; riconoscendo la “partecipazione” anche a coloro che non sono in grado di “partecipare”, stabilmente o contingentemente, per ragioni di disabilità o malattia; cumulando tutta la gamma delle attività in cui la persona è impegnata e riconoscendo il diritto a frazioni del reddito di partecipazione a chi ha, non per sua scelta, una partecipazione incompleta. Sarebbe quindi un reddito minimo, non garantito a tutti i cittadini, ma condizionato.

Questo in via di principio. In pratica il reddito di cittadinanza attuato in Italia assomma in sé i due obiettivi predetti: è “reddito di cittadinanza”, ma anche “reddito di partecipazione”. E allora si ricordi che, secondo la Regola di Jan Tinbergen, primo Premio Nobel per l’Economia, affinché un problema di politica economica abbia una soluzione, il numero delle variabili obiettivo (in questo caso due) non dev’essere superiore al numero delle variabili strumentali (in questo caso uno).

Daniele  Ciravegna

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