Dunque Putin conviene circa l’ opportunità che Trump si prenda la Groenlandia. In un modo o in un altro. Quindi senza escludere un colpo di mano militare ove non vi fosse altra via?
La successiva dichiarazione di Putin potrebbe essere soltanto un gesto di cortesia, una concessione unilaterale fatta per compiacere il narcisismo del “compagno di merenda” ed intortarlo meglio. Come, del resto, sta già avvenendo in Ucraina dove Putin continua a bombardare ed a dettare le condizioni, facendosi un baffo delle amichevoli chiacchierate. A meno che non abbia pattuito fin dove può spingersi prima di adattarsi davvero ad una tregua.
Putin non vuole la pace, non l’ha mai voluta. Ha un disegno a lungo termine e comunque evolva la vicenda, vuol fare dell’ Ucraina un focolaio di tensione che gli serva per ammonire, ricattare, se appena possibile destabilizzare almeno tutti i territori ex-sovietici. Soprattutto,, una spina conficcata nel fianco dell’Europa. Come se volesse giocare al gatto ed al topo, sta mettendo alla prova – vedi la proposta di un governo ONU in Ucraina – la pazienza del suo interlocutore d’ oltreoceano e comprendere fin dove possa spingere il suo azzardo. Del resto, non dimentichiamo che, fin dall’ inizio dell’ aggressione a Kiev, Putin ed i suoi strateghi – non ultimo il Patriarca Kirill – hanno fatto conto sulla “mollezza” dell’ Occidente e dell’ Europa in modo particolare. Oppure, siamo già avanti un passo in più in quella spartizione delle rispettive aree di influenza – salvo il grosso inconveniente della Cina – che i due immaginano di condurre in porto, tale per cui l’ indegna farsa che si sta consumando ai danni dell’ Ucraina è il prezzo che Trump paga all’ altro per avere man leva nell’ Artico?
Putin “ama” la guerra. Ce l’ha nel sangue e ne ha bisogno. Ha già ampiamente dimostrato, contro i dissidenti del suo regime, di avere una concezione criminale del potere. E Trump non è affatto un uomo di pace. I “predatori” non possono fare a meno della guerra. Ed intanto le forze liberali e democratiche, al di là ed al di qua dell’Atlantico, si mostrano incapaci, afasiche ed impotenti, intimorite, assediate , anzitutto, dalla loro stessa paura. Sostanzialmente inette, a cominciare dai democratici che, dopo la sconfitta elettorale dello scorso novembre, sono sostanzialmente spariti dalla scena. Forse annichiliti, in uno stato di stupore catatonico, talmente è stato rapido il rovesciamento di Trump, un contropiede imprevedibile, irragionevole e provocatorio. Non hanno ancora calibrato le categorie di giudizio necessarie ad entrata nella guardia di una logica che forse neppure c’è ed appare, comunque, indecifrabile, contraddittoria e, prima o poi, autolesionista.
Anche noi europei, al di là di qualche impennata di buona volontà, non abbiamo la forza – materiale e morale – necessaria per reagire ad un disegno perverso che ci sospinge ai margini di un nuovo brutale ordine mondiale.
Al di là ed al di qua dell’Atlantico, senza la visione condivisa di un mondo libero e giusto; senza un comune orizzonte morale; senza un disegno che accenda nei popoli – in Europa, in modo particolare – almeno un moto di orgoglio, una qualche forma di memoria storica, di reazione e di contrasto all’ umiliazione che stiamo subendo, le forze politiche e culturali ispirate alla libertà ed alla democrazia sono prive di riferimenti, di pietre miliari che permettano di costruire una contro- argomentazione ragionata.
Putin e Trump in Ucraina mettono alla prova la strategia cui si affidano per spartirsi il mondo, secondo criteri antitetici ad ogni ragionevole norma di diritto internazionale. Conoscono solo la forza bruta, l’ interesse immediato, il disprezzo per chi non sia funzionale al loro disegno. Ad ogni modo, su tutto dominano le “affinità elettive” tra le varie forme di regime post- democratico: dittature appena mascherate, autocrazie, democrature, modelli comunque illiberali, forme, solo apparentemente più morbide, di personalizzazione e centralizzazione del potere esecutivo, predominante su ogni altro. Ed è qui, su questo fronte, la linea di demarcazione da non smarrire ed attorno alla quale le democrazie devono spendere il loro impegno e concertare uno sforzo comune.
In un tempo che non le favorisce ed anzi confligge con ogni dimensione di libero, aperto, plurale discorso pubblico che presieda ad una politica capace di apprendere induttivamente dalla sua stessa esperienza e garantire la piena appartenenza della sovranità al popolo. La complessità del tempo, la contestualità di crisi che compromettono vecchi equilibri, senza che se ne intravedano altri, le innovazione che irrompono e creano un distacco incolmabile tra nuove potenzialità e criteri etici necessari a governarle, favoriscono forme e modalità di governo che si affidino ad assiomi pre-ordinati da cui dedurre meccanicamente, secondo una sequenza rigida ed inappellabile, le soluzioni di governo necessarie.
Non è solo la sua declinazione democratica, ma la stessa politica, in quanto tale, come spazio cui concorrono tutte le voci e le istanze di un certo contesto civile, in quel particolare frangente storico, ad arretrare di fronte alla presunta ed algida, meccanica ed automatica efficienza delle tecnocrazie che vivisezionano la realtà secondo finestre algoritmiche, le quali, al di là di ogni apparenza, non sono in grado di darne una rappresentazione organica e compiuta.
Le “affinità elettive”, come ne parla Goethe nel suo romanzo, sono forze irresistibili, non ovviabili, che dettano il destino delle persone, singole e, nel nostro caso, collettive. Presiedono, dunque, anche ad una connessione tra modelli politico-istituzionali che fin qui abbiamo considerato storicamente e sostanzialmente antitetici ed, oggi, finiscono per convergere e sovrapporsi, quasi fossero sospinti da una curvatura gravitazionale dello spazio che non lascia alternative praticabili neppure ai sistemi democratici più consolidati.
Domenico Galbiati