Siamo entrati nel “semestre bianco” e ci attende, il prossimo autunno, un rilevante turno di elezioni amministrative.
Votano Roma e Milano, Napoli e Torino e poi anche Bologna ed una miriade di altri comuni.

Inutile nascondersi dietro un dito, invocando il carattere locale della consultazione, che necessariamente, in questa occasione più che mai, non potrà sfuggire ad una valutazione prettamente di ordine politico generale. E non solo in senso “aritmetico”, cioè sul piano di una mera “conta” dei consensi che permetta di formulare più o meno accurate presunzioni in quanto alla distribuzione del voto “politico” che seguirà, così da orientare modalità di accordo o alleanze preventive sul piano nazionale. Si tratta, piuttosto, di cogliere il sentimento di fondo del Paese e riaccreditare le istituzioni come luogo di composizione degli interessi segmentati che affollano il contesto civile.

Soprattutto, si tratta di snidare la politica dal “palazzo”, di riscattarla  da quegli schemi anchilosati del potere centrale che alimentano l’ “antipolitica”, per riproporla nella sua dimensione più autentica, diretta ed elementare, in quanto funzione diffusa e di concorso pubblico alla vita collettiva. Se liberata dalla brutale ossessione del potere e riportata alla forma originaria del “pensare politicamente”, può diventare patrimonio di tutti ed esercizio comune di reciproca responsabilità, nel senso di quella “pedagogia della convivenza” di cui ci ha appena parlato Guido Guidi nel suo recente articolo pubblicato ieri su queste pagine ( CLICCA QUI ).

La prossima consultazione autunnale, grazie alla sua dimensione locale e di radicamento nella pluralità dei territori, senza tradire il suo carattere amministrativo, va concepita anche come occasione ed opportunità di investimento politico e collettivo sulla partecipazione effettiva e personale di ognuno, autonoma e criticamente consapevole alla vita della città cui si appartiene, nell’ottica, si potrebbe dire, di quella “comunità di destino”, cioè di quell’orizzonte di comune e solidale appartenenza , in cui si inscrive il vissuto quotidiano di ciascuno. Va sperimentata come prova ed ampia operazione di forte valenza politica, nel senso di rompere lo schermo opaco che separa la vita delle istituzione dalla percezione personale e vissuta di un reale coinvolgimento del singolo cittadino e dei gruppi in cui prende forma la sua personalità sociale. La “riscoperta” della democrazia passa necessariamente da qui.

Non c’è un “altrove” che non siano i Comuni e le stesse articolazioni “municipali” delle maggiori conurbazioni in cui tentare questa rigenerazione della democrazia, in chiave post-moderna, prima che sia troppo tardi e le istituzioni, quasi di necessità, si trasformino da luogo della trasparente vivacità della vita comune, in apparati ottusi e cogenti di controllo e di sanzioni dirette ad imporre, più o meno ciecamente, quel tanto di regole che, se non altro, garantiscano almeno ordine, sicurezza, stabilità al contesto civile e reciproca incolumità ai cittadini.

In un mondo fortemente interconnesso, strutturato in termini di reciproca e necessaria interdipendenza tra i più disparati versanti della vita collettiva, cioè in un contesto civile di alta complessità, non abbiamo nessun’ altra possibilità se non rigenerare davvero la democrazia, come condizione primaria della libertà di ognuno oppure avviarci, grigi e rassegnati, verso una qualche forma di universo concentrazionario. Le amministrative di ottobre sono il primo atto del percorso “di guerra” che seguirà con l’elezione del Capo dello Stato e, auspicabilmente alla naturale scadenza della legislatura, con le prossime elezioni politiche che vedranno il Parlamento ridotto numericamente e forse pure nell’efficacia della rappresentanza. Un passo alla volta. Eppure, non si può fare a meno di guardare complessivamente a questo lasso temporale di medio termine che può risultare dirimente per quanto concerne l’evoluzione o meno del nostro sistema politico; con quel che ne seguirebbe di conseguenze sull’ insieme delle relazioni e delle dinamiche che si intrecciano e reciprocamente si condizionano nel corpo vivo della società civile.

Camminiamo sul sottile equilibrio di una corda tesa tra due appuntamenti elettorali, intervallati dall’esercizio acrobatico dell’elezione presidenziale che le forze in campo cercheranno di addomesticare nel segno di una stabilizzazione dell’ assetto bipolare il quale, tutto sommato, sembra stare bene a tutte le forze politiche, salvo valutare la dialettica interna all’uno ed all’altro dei due poli. Del resto, anche chi dovesse cercare di uscire dalla propria esiziale marginalità, facendo volare gli stracci e pur cercando di rompere l’equilibrio asfittico che via via il maggioritario ha accumulato sulla coscienza civile del Paese, lo farebbe senza saper mettere in campo una visione politica nuova, ma solo per mere ragioni di sopravvivenza della propria parte o addirittura della propria personale partita politica.

Intanto vale la pena valutare se e come, attraverso l’appuntamento elettorale ormai prossimo, si possano aprire fessure o più ampi squarci attraverso i quali arieggiare le stanze chiuse di un sistema politico arroccato su di sé. A maggior ragione con l’elezione diretta dei sindaci e dei cosiddetti “governatori” regionali, la narrazione della politica italiana – ed, anzi, il suo effettivo esercizio – si è rattrappito, con il generoso concorso dei talk-show che ogni sera ce la scodellano nel piatto, nella contesa cruda tra pochi veri o sedicenti leader, che giungono talvolta alla frustrante misura del recente scambio di gratuite battute al vetriolo tra Salvini e Letta.

La dialettica politica viene, in un certo senso, “privatizzata” ai livelli apicali del sistema politico, secondo una logica piramidale che soffoca una più vasta e libera espressione di una classe politica e dirigente che, al contrario, in modo particolare negli Enti Locali, può e deve trovare occasioni e modi di un rinnovato protagonismo. Si devono ampliare gli spazi per un nuovo ceto politico e dirigente, aperti anzitutto ai giovani, che allarghino l’“agora’” del discorso pubblico, liberandola dalla subalternità al bisticcio autoreferenziale dei partiti “leaderistici”.

Vale la pena segnalare alcuni punti che dovrebbero essere assunti come “cifra” delle prossime amministrative. E’ il momento, anzitutto, di proporre che si vada ad una piena autonomia impositiva in capo ai Comuni, anche riconoscendo ad essi integralmente il gettito dell’IMU, come suggerisce in una sua nota, l’amico Roberto Pertile.
E’ necessario, dopo le provocazioni “secessioniste” della Lega, una piena riaffermazione del valore originario delle autonomie, intese nella loro accezione di momenti che concorrono non a destrutturare, bensì a corroborare, attraverso l’articolazione plurale delle sue particolarità locali, lo spirito unitario e l’identità morale, storica e politica del nostro Paese, anche a sostegno del necessario processo di riallocazione, per gradi e funzioni distinte, della “sovranità” che appartiene al popolo, addirittura nel più vasto concerto europeo.

Gli Enti Locali, grandi o piccoli che siano, vanno intesi come lo spazio più immediato in cui la comunità esprime la propria vitalità politica e non meramente come il luogo della tecnocrazia diretta solo al buon funzionamento dei servizi. Altre considerazioni si impongono almeno su due fronti: il ruolo delle città come contesto in cui concepire e mettere alla prova nuovi modelli di convivenza dopo la pandemia ed a fronte del fenomeno migratorio ed ancora il compito, in modo particolare delle aree metropolitane – penso soprattutto a Milano – come nucleo di condensazione di un nuovo spirito europeo unitario.

Domenico Galbiati

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