La lunga telenovela della normativa sulle concessioni demaniali marittime italiane e della  applicazione della Direttiva Bolkestein, che sembra avvicinarsi ad un epilogo, è sta da tutti letta come il conflitto tra la volontà di “aderire” alla normativa europea e la resistenza, comprensibile, ma non giustificata, di chi si ostina a difendere, oltre al posto di lavoro, se non proprio privilegi, almeno consuetudini in netto contrasto con le dure ma salutari esigenze della concorrenza, fondamentali per l’uscita dalle crisi e per il PNRR. E’ una lettura corretta? Io credo di no e credo che esistano gli elementi per dire che stavolta non ce lo chiede l’ Europa. O almeno non ce lo chiede nei termini con cui la questione è presentata, indifferentemente, dai sostenitori accaniti e dagli avversari determinati della Bolkestein.  La questione è molto più ampia e delicata di quanto sembri. Per questo l’epilogo della vicenda dovrà essere prima di tutto saggio, equilibrato, affidabile e previdente.

Vediamo in sintesi la questione.  L’UE come noto non ha competenze normative  né in materia di turismo, né di gestione del demanio statale ( l’art. 345 del TFUE impone che i trattati lascino impregiudicato  il regime di proprietà esistente negli Stati membri, a maggior ragione la proprietà demaniale). Esiste però una Direttiva, la Direttiva 2006/123 o Direttiva Bolkestein, peraltro concernente i “servizi” ( e “servizi” nel testo dei trattati sono da ritenersi le attività economiche industriali ed anche commerciali) che la giurisdizione, europea e poi italiana, ha ritenuto di dover applicare anche alla gestione delle concessioni demaniali marittime turistico-ricreative italiane. Nel frattempo –la Direttiva era del 2006- un regime di proroghe ripetute ha preso il posto di una normativa interna di recepimento, che il Parlamento e il governo non sono stati in grado di produrre.

Qui, cioè nelle sentenze della giurisdizione è però il primo problema. La Direttiva va applicata a dei servizi o a dei beni ( peraltro demaniali)? In altri termini essa concerne solo le autorizzazioni di servizio o anche le concessioni di beni demaniali? Se partiamo dalla giurisprudenza europea, della CGUE, abbiamo una prima risposta. La Direttiva Bolkestein può essere applicata anche alle concessioni di beni demaniali. Per l’esattezza il considerando n. 41 di una nota sentenza della Corte di Giustizia europea recita:

“Tali concessioni ( le concessioni di beni demaniali) possono quindi essere qualificate come «autorizzazioni», ai sensi delle disposizioni della direttiva 2006/123, in quanto costituiscono atti formali, qualunque sia la loro qualificazione nel diritto nazionale, che i prestatori devono ottenere dalle autorità nazionali al fine di poter esercitare la loro attività economica”. ( Sentenza Promoimpresa e Melis, CGUE, 14 luglio 2016).

In sostanza la CGUE si limita a riconoscere la possibilità di identificare come “autorizzazioni di servizio” anche le “concessioni demaniali”, precisando in tal senso la portata del testo originario della Direttiva, ma non vincolando a tale identificazione anche il giudice nazionale, che resta, evidentemente, libero di valutare la fattispecie sulla base del contesto di riferimento, usando i principi di adeguatezza e proporzionalità, che certo la CGUE non pregiudica. Ed è infatti, nel nostro caso, ma solo in quello italiano, non in quello spagnolo ad esempio, che  il giudice amministrativo nazionale- il Consiglio di Stato-  è andato, con una propria argomentazione, oltre la statuizione della CGUE, sostituendo il verbo “potere” col verbo “dovere” e quindi affermando, tout court,  l’identità sostanziale di concessione demaniale e autorizzazione di servizio, sulla base di una deduzione logica che si fonda dichiaratamente sul solo effetto economico del provvedimento concessorio, ma che prescinde dalla natura e dal contenuto che, nello specifico italiano, sono implicite nella concessione di un bene demaniale con finalità turistiche. Si tratta di identificazione peraltro discutibile, dato che l’attività di “servizio”, in questo caso però, non implica, di fronte all’autorizzante,  soltanto un soggetto beneficiato che interviene con proprie forze e capitali, ma anche un bene soggetto a tutele particolari e portatore di interessi collettivi.

Il passo della Sentenza del Consiglio di Stato del 18/2021 del 9 novembre è peraltro chiarissimo in merito:

“La distinzione (tra concessione di beni e autorizzazione di attività) di stampo giuridico-formale deve essere rivisitata  nell’ottica funzionale e pragmatica che caratterizza il diritto dell’ Unione, che da tempo, proprio in materia di concessioni amministrative, ha dato impulso a un processo di rilettura  dell’istituto in chiave sostanzialistica, attenta , più che ai profili giuridico-formali, all’ effetto economico del provvedimento di concessione , il quale, nella misura in cui si traduce nell’attribuzione del diritto di sfruttare in via esclusiva una risorsa naturale contingentata  al fine di svolgere un’attività economica, diventa una fattispecie che, a prescindere alla qualificazione giuridica che riceve nell’ambito dell’ordinamento nazionale, procura al titolare vantaggi economicamente rilevanti in grado di incidere sensibilmente sull’assetto concorrenziale del mercato e sulla libera circolazione dei servizi”(Sentenza 18/2021, p. 23).

La distinzione tra concessioni demaniali ed autorizzazioni non ha dunque più ragion d’essere per la sentenza. L’effetto economico della concessione demaniale, secondo la sentenza, è più che sufficiente a modificare la qualificazione giuridica dell’ intera fattispecie, più che sufficiente a trasformare la concessione di bene demaniale in autorizzazione. Né più né meno della autorizzazione-concessione per un servizio di linee di pullman turistici.

Che la decisione sia del giudice italiano è evidente da una semplice comparazione. Non è così dovunque in Europa, nei paesi ad alta accoglienza turistica. In Spagna, ad esempio, la normativa che concerne le concessioni demaniali marittime ( Ley de protecciòn y uso sostenibile del litoral, 2/2013) ha una disciplina diversa da quella che avremmo se estendessimo ad esse le medesime regole delle autorizzazioni di servizio. Solo per fare un esempio “ per coloro che sono titolari di una concessione…è previsto che questi possano mantenere il loro diritto e, nel momento dell’estinzione dello stesso, che possano beneficiare di una proroga straordinaria ovvero di poter richiedere una nuova concessione- In riferimento alla proroga straordinaria per le concessioni esistenti, si sottolinea che essa è  stabilita in favore di quelle concessioni  che, in base al termine dei trenta anni di cui alla legge del 1988 , sarebbero scadute nel 2018. La durata massima della concessione straordinaria è di settantacinque anni, come per le concessioni ordinarie”( Ginevra Cerrina Feroni, La gestione del demanio costieroUn’analisi comparata in Europa, il Federalismi.it,19 febbraio 2020, p. 28, con nota 21). Potremmo poi aggiungere che in Spagna  il principio della gara si presenta come affermazione astratta, non supportata da applicazione omogenea e uniforme.

Certo meccanismi concorrenziali veri sono necessari in Italia ed in Europa e la mancanza di una normativa interna italiana è una carenza imperdonabile. Ma quando cerchiamo di introdurre pratiche virtuose è necessario sempre fare attenzione alle specificità dei contesti, per evitare la trappola dell’eterogenesi dei fini. Per cui magari mentre crediamo di introdurre la concorrenza, introduciamo meccanismi che la deformano.  Importante è perciò capire ciò che potrebbe andare a giovamento e cosa a detrimento della situazione esistente con una nuova normativa.

La concorrenza, nel campo delle concessioni demaniali marittime,  non può intanto esser vista come un puro rapporto costi/standard di qualità. L’attività turistica non è soltanto attività economica. I suoi vincoli di gestione poi non sono quelli di una impresa qualsiasi o di una attività commerciale qualsiasi. Vi sono fattori ambientali, economici e sociali che conformano tale gestione, vincoli che è impossibile eliminare senza penalizzare l’attività. L’ Italia è il paese per cui è nato non solo il turismo balneare, ma il termine stesso di “turismo”; il “Grand Tour” che i nobili europei facevano, attraverso l’ Europa,  dal XVIII secolo in poi aveva come unica destinazione l’ Italia, non altri Stati. Ovviamente l’Italia non era l’unico paese al mondo dotato in ciò solo dalla natura. Un motivo aggiuntivo  vi sarà pure stato.

Il fattore sociale e socio-culturale ha contato e conta moltissimo. Ora però il fattore sociale (oltre quello ambientale) è un elemento essenziale della capacità di concorrenza. Esso conferisce un vantaggio differenziale alle attività turistiche che si svolgono in una data area. Si potrebbe cancellare questo fattore differenziale in nome del livellamento “democratico” delle condizioni di mobilità dei capitali e dei servizi tra le  varie aree del mondo o in nome della libertà di stabilimento di un’impresa?

Con grande chiarezza si possono condividere queste riflessioni sul turismo italiano:

“ Si prenda ad esempio il modello italiano del turismo balneare: gestione familiare, forte legame con la cultura e la tradizione autoctona, offerta turistica profondamente influenzata dal carattere identitario. Fattori, questi, che non dovrebbero prescindere nella revisione normativa del settore attuata dalle autorità competenti. Si tratta, dunque, di guardare al tema da un’angolazione ampia e non artificialmente restrittiva. Un’attività così fortemente – forse come nessun’altra – territorializzata non può, ragionevolmente, essere guardata come se non lo fosse. In realtà, gli stabilimenti balneari, sono una componente essenziale e distintiva della caratterizzazione dell’offerta turistica di un singolo territorio: dove la competizione più importante è rispetto ad altri territori. Sicché è naturale che il legame con il territorio del concessionario vada considerato come un valore indeclinabile. Diversamente si avrebbe una violazione del principio di adeguatezza e proporzionalità”.( Ginevra Cerrina Ferroni, La gestione del demanio costiero, cit. p. 43).

Questo  valore o vantaggio differenziale dato dall’elemento identitario ( e dalla presenza di una tradizione)  non può certo essere eliminato per motivi economici o per la volontà di stabilire parità di condizioni tra situazioni che non possono essere uguali tra loro ( Sharm el Sheik non può essere resa uguale a Forte dei Marmi, come sarebbe necessario per far sì che il turista-consumatore possa liberamente scegliere la vacanza più adatta attraverso il calcolo del rapporto costi/benefici) . C’è infatti anche una considerazione economica di respiro più ampio da fare. Se si rimuove l’elemento identitario si finisce per “falsare lo scenario del mercato rilevante” ( Ginevra Cerrina Feroni, La gestione ecc., p. 43). Si dimentica che la concorrenza di cui dovremmo parlare è quella che opera non su un mercato locale: non si tratta di mettere in concorrenza un bagno col bagno accanto. La vera concorrenza è quella che opera sul mercato rilevante ed è in concreto quella che opera    attraverso la capacità attrattiva delle specifiche aree del modello italiano sui nostri concorrenti e vicini di casa europei. E’ interessante il fatto che non un parlamentare, né un giudice, ma un sindaco, il sindaco di Forte dei Marmi, Bruno Murzi abbia rilevato la vera portata di  questo problema di fondo “ In ballo non c’è solo una categoria, quella dei balneari. Ma la nostra storia, l’identità su cui si fonda il nostro territorio” ( Il Tirreno 24 maggio 2022). Un territorio che perde questa identità quanto sarà ancora attrattivo? Un problema che non riguarda Forte dei Marmi o i bilanci di 30.000 famiglie italiane- che cinicamente potrebbe ritenersi irrilevante- ma riguarda il PIL italiano, il suo rapporto col debito pubblico e quindi con le tasche di tutti gli italiani.   I dati macroeconomici ci indicano il rischio con grande chiarezza.

Se prendiamo lo sviluppo complessivo delle coste ed il numero dei turisti ospitati nel 2015 vediamo che la  Francia con 3427 chilometri  e con 89 milioni di turisti è al primo posto, ma con una minore disponibilità di coste, la Spagna  con 4936 chilometri di coste  e 83 milioni di turisti è al secondo posto, mentre l’ Italia, con 7458 chilometri di coste, e cioè col patrimonio più ampio di coste marittime, ha solo 62 milioni di turisti annui. Dove è evidente quali appetiti e quali interessi finanziari globali stimoli una situazione come quella italiana evidentemente con potenzialità enormi da tradurre in atto. Ed è anche evidente che uno squilibrio nelle condizioni di accesso al mercato “ senza garanzie di reciprocità con altri Paesi europei nostri diretti concorrenti, possono avere l’effetto di smantellare  le basi dell’industria balneare della Penisola” ( Ginevra Cerrina Feroni, La gestione del demanio, ecc. p. 24). E’ questo che si vuole? E se non si vuole, cosa si propone di fare per evitarlo?

L’ Europa che vale  la pena di continuare a costruire non può essere quella che ci viene presentata in questo modo.  Non può essere una Europa per cui non esiste un “territorio”, ma solo un astratto “spazio economico” in cui l’individuo si muove senza ostacoli, unicamente sulla base di convenienze monetarie. E uno spazio può divenire territorio, solo se incorpora, accanto alla vita economica dei cittadini, l’idea o l’aspettativa di forme di comunità e solidarietà. Oggi invece ormai l’apertura di nuovi spazi economici por­tata dalla globalizzazione ha contribuito alla costruzione di un nuovo binomio, costituito dalle due parole “tecnica” e “spazio”, che ha pienamente sostituito quello di “territorio” e “diritto” e che ha caratterizzato gran parte della storia delle istituzioni politi­che. L’ Europa da costruire non può essere l’ Europa che promuove un  diritto “lieve”, non più in grado di trasformare lo spazio, ma interessato a colonizzarlo solo economicamente.

Può essere solo l’Europa che lavora per armonizzare le legislazioni ( come faceva con le Direttive vere, quelle  che richiedono il recepimento concreto e la mediazione, non quelle self executive che favoriscono spesso il disinvolto “gioco delle parti” del “Lo vuole l’ Europa”), un’ Europa che lavora per modificare verso l’alto le condizioni sociali di tutti , che si assume responsabilmente i carichi fiscali necessari per realizzare una vera comunità politica in grado di avere in un prossimo futuro una politica estera davvero comune e di costruire una pace vera e duratura. Non può esistere un’ Europa che frammenta l’ Europa o che non riconosce le proprie incancellabili e feconde diversità e identità.

Umberto Baldocchi

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