Una riflessione con Giuseppe Ignesti, fatta a caldo dopo l’assalto alle sedi istituzionali democratiche di Brasilia, e che ha seguito l’altrettanto drammatico e sanguinoso attacco a Capitoli Hill di due anni fa a Washington, porta ad affrontare la questione della polarizzazione e, quindi, della estremizzazione che sembra, un po’ dappertutto, caratterizzare molte democrazie moderne del mondo che definiamo Occidente.
Polarizzazione ed estremizzazione che creano mali ancora maggiori quando si presenta un disagio vissuto attorno all’equilibrio tra i poteri, e in particolare quello che sta alla base della separazione della magistratura sia dal potere governativo, sia da quello del Parlamento. Così, alle drammatiche vicende brasiliane e statunitensi, sia pure in forma meno violenta, si aggiunge il momento del tutto particolare che sta vivendo Israele con una parte della sua popolazione, come mai accaduto in precedenza, scesa in piazza contro il progetto del nuovo governo di destra destinato a portare un grave attacco alla terzietà e all’indipendenza della Corte Suprema dello Stato ebraico. Ciò che ha contribuito a fare di Israele l’unica e vera esperienza totalmente democratica d’impronta occidentale sulla riva nord del Mediterraneo. I contestatori, nel corso dell’ultima manifestazione di proteste a Tel Aviv erano più di 1oo mila, innalzavano cartelli per condannare il “cesarismo” di Netanyahu.
Nel frattempo, la Corte suprema israeliana, ancora libera di esercitare pienamente le originarie funzioni di propria competenza, ha intimato al Primo ministro Netanyahu di licenziare il ministro Aryeh Deri, capo del partito ultra ortodosso Shas perché prima è stato condannato per frodi fiscali e, poi, ha dichiarato ai giudici di lasciare la politica per ottenere dei benefici giudiziari.
Il problema del rapporto tra politica e magistratura si pone, dunque, in numerosi parti del mondo democratico. Noi italiani ne sappiamo qualcosa. Così come ne sanno anche gli statunitensi la cui Corte suprema è da decenni in mano a giudici di nomina repubblicana i quali, in alcuni casi, si sono quasi “militarmente” impegnati contro i governi del partito avverso.
La perfezione non è di questo mondo e, dunque, neppure è sempre presente in tutti i processi democratici. In particolare, là dove c’è chi tali processi intende impostarli più sulla base del principio dell’autorità che della saggezza dell’autorevolezza e della piena accettazione delle dinamiche della democrazia. E non si tratta in questa sede di questionare sui sistemi elettorali che sono tanto diversi da paese a paese, perché tanto specifiche e particolari sono le loro singole storie.
Talvolta, invocando la governabilità si finisce per scegliere una deriva verticistica e per trovarsi di fronte ad una eterogenesi dei fini. Nel senso che chi si basa sul principio d’autorità, perché in esso vi vede la possibilità di rispondere ai problemi della gestione certa ed efficiente della cosa pubblica, diventa poi per essere partecipe, o a ritrovarsi succube, di quella tendenza alla radicalizzazione che sempre più caratterizza il mondo moderno. Fino a solleticare la divisività più estrema, in Brasile e Stati Uniti si è giunti alla sovversione, che costituisce esattamente il contrario della governabilità e della ricerca del giusto equilibrio da raggiungere tra i tanti interessi e componenti culturali, sociali ed economiche in grado di caratterizzare una società avanzata.
Quell’equilibrio, ad esempio, garantito dalla nostra Costituzione elaborata sulla base del convincimento che proprio nell’autentico rispetto della pluralità delle presenze, della ricerca e del perseguimento dei tanti concomitanti fini, verso cui vanno le composite sensibilità umane, si trova quel salto di qualità evolutivo che caratterizza il mondo moderno e che si distingue dal “dispotismo”. E questo patrimonio ideale, ma reso concreto anche da decenni di pratica democratica, è pienamente coerente con quei principi proclamati e sottoscritti nei trattati internazionali che consentono di apprezzare la decisa alternativa indicati da altri modelli, oggi ci si riferisce a Russia e Cina, considerati in maniera negativa proprio perché impegnati nella salvaguardia del principio di autorità piuttosto che di quello dell’autorevolezza.
Un’autorevolezza che nasce dalla capacità di analisi, della corretta interpretazione dei fenomeni e, soprattutto, dell’individuare soluzioni che possano essere largamente condivise e perseguite in maniera razionale, logica e realistica. I seguaci del principio di autorità sono carenti, invece, proprio nel riuscire ad avere una visione prospettica del passato, del presente e una tale visione accettarla per il futuro.
La democrazia “stanca”, si potrebbe dire: nel senso che richiede cure e sollecitudini, ma sappiamo che, come disse Winston Churchill sfrattato da Dowing Street dopo aver appena vinto la guerra: “se è vero che la democrazia è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte le altre forme che si sono sperimentate finora, è bene che diventi un vizio, nella speranza che sia difficilissimo poi smettere”. Ovviamente, egli si riferiva in particolare alla più antica democrazia parlamentare, quella del Regno Unito.
Noi siamo costretti a chiederci se, oggi, nella specificità italiana, non abbiamo bisogno di riflettere, in profondità e a lungo, sul da farsi quando sentiamo parlare, anche con un certa leggerezza, e senza la precisazione di un progetto certo nelle sue forme concrete, di un intervento di natura costituzionale per poter finalmente accontentare quelli che da un pezzo chiedono di sapere chi governerà per l’intera legislatura la sera stessa di un appuntamento elettorale. E magari sono gli stessi che finora hanno fatto e disfatto governi senza una logica che non fosse quella di curare i loro interessi personali o di partito.
Comunque, non si tratta, a fronte di drammatici avvenimenti come quelli di Brasilia, o di quelli di 24 mesi orsono a Washinton, di limitare questo ragionamento solamente al modello astratto d’impronta presidenziale. Bensì, di capire che l’essenza della questione sta nella capacità dei gruppi dirigenti di fare proprie, o almeno di esaminare e tenere nella giusta considerazione, le ragioni di chi rappresenta l’altrui parte e di capire se e quanto a loro fondamento sia rinvenibile una motivazione che abbia, in qualche modo, un proprio riconoscimento logico oltre che politico. E se in questa motivazione, si individui una serie di problemi, che perché reali non possono essere cancellati. Ciò significa davvero il superamento di un sentimento di contrapposizione preconcetta che finisce a trasformarsi in una demonizzazione dell’altro e nel mancato riconoscimento di una parte di “verità” che egli esprime e rappresenta.
Riguardando alle vicende statunitensi e brasiliane, dobbiamo riconoscere che l’Europa ha fortunatamente una postura e una tradizione politico istituzionale diverse, sia pure nella varietà dei differenti sistemi che caratterizza i vecchi e nuovi paesi che ne fanno parte. E’ un continente che offre un’ampia varietà di scelta per ciò che riguarda gli assetti istituzionali e per questo basta solamente prendere i tre principali paesi che la fondarono, e che oggi la guidano, Germania, Francia e Italia per averne la conferma.
Come dimostra l’accidentato percorso del processo europeo, ma anche le singole vicende di quasi tutte le nazioni che vi partecipano, pure nel Vecchio continente si presentano spesso le questioni dei rapporti e dell’equilibrio tra i poteri. Forte e significativo, ad esempio, quello che ha sollevato la Corte suprema tedesca in relazione a talune decisioni che anche la Germania ha concorso ad assumere in sede dell’Unione in materia finanziaria. E sullo sfondo vi sono quelli della rappresentanza degli interessi che concorrono a definire il vivere civile e comunitario e della partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Una certa tendenza alla semplificazione dei meccanismi elettorali e politici serpeggia, però, un po’ dappertutto sulla base dell’invocazione della governabilità, dell’efficienza e del buon funzionamento della cosa pubblica. Che pure restano problemi reali, come meglio nessuno più degli italiani possono valutare.
La forza vera di una nazione, o di un consesso di nazioni, va dunque ricercata nella capacità effettiva, che deve trovare anche i meccanismi pratici d’intervento, di fare sì che tra efficienza e democrazia non vi sia né iato né scontro. Ed è qui che emergere la necessità che in Europa in generale, e in Italia, in particolare, a partire dai territori, si reclami, si solleciti e s’incoraggi l’arrivo di una classe politica intenzionata a puntare sulla carta dell’autorevolezza, e cioè capacità di governo partecipato, e non preferire la scorciatoia del principio di autorità. Possono essere queste le lezioni che riceviamo da Brasilia e da Israele, come già le ricevemmo da Washington?
Giancarlo Infante