La sorpresa delle elezioni presidenziali del 3 novembre è che non c’è stata sorpresa. Era stata prevista
la vittoria di Joe Biden, e Joe Biden ha vinto. Era stato previsto che Donald Trump non avrebbe accettato
la sconfitta, e Donald Trump non ha accettato la sconfitta, almeno finora. Questa seconda previsione
che si sta realizzando è una novità, teoricamente dirompente, ma il fatto stesso che fosse stata annunciata
e descritta nei suoi passaggi obbligati – forti denunzie su brogli e coinvolgimento della magistratura –
ne ha smorzato l’impatto: tutti se l’aspettavano e il fatto che, almeno finora, ci sia stato solo qualche
tafferuglio ma non quella discesa in armi in massa verso la guerra civile, riconduce la politica allo
spettacolo.

Se Trump fosse stato silenzioso prima del voto e solo dopo avesse dichiarato di non riconoscerlo, la
situazione avrebbe potuto precipitare. Ma il Presidente aveva da tempo puntato l’indice sul voto postale,
sulle modalità di conteggio, sulla complicità della maggioranza dei mass media. E la controparte
democratica non grida allo scandalo o al tentativo di sovvertire le istituzioni: procede come se nulla
fosse e si limita a dire che Trump «ostacola» la transizione, il passaggio delle consegne. E poi c’è il
blocco di 71 milioni di voti per Trump, la tenuta del Partito Repubblicano che ha già conquistato 50
seggi al Senato e 2 saranno assegnati a gennaio. Poi ci sono i commenti che, a freddo, non prevedono
una conversione a U della politica americana, ma evidenziano le aree di continuità. E questo era
prevedibile: gli interessi americani sono permanenti, vanno al di là della persona e dello stile del
Presidente.

È vero che Biden ha detto: «L’America è tornata». Ma dov’era finita? Forse che gli sconvolgimenti
nelle relazioni economiche internazionali sono state decise dai Marziani o che nel Medio Oriente gli
Usa non hanno influito come in passato, anche se correggendo la traiettoria? La Cina ne sa qualcosa:
per Pechino, l’America non se n’era andata durante il quadriennio trumpiano. Qualsiasi politica abbia
fatto Washington, ha creato contenti e scontenti: con Reagan e con Bush, con Clinton e con Obama e
con Trump. E così sarà con Biden.

Allora bisogna spostare l’attenzione su questo scenario interno che è, allo stesso tempo, inedito e
previsto. Ma è solo previsto o anche programmato? Gli Americani ci tengono alla loro Costituzione e
al loro sistema politico messo a punto oltre 230 anni fa. Straordinaria chiaroveggenza oppure c’è
bisogno di qualche ritocco?

Il giurista italiano Sabino Cassese ha scritto, sul Corriere della sera del 3 novembre scorso, che la Costituzione del 1787 è un po’ vecchia e presenta storture e contraddizioni. Di sicuro l’immagine degli Stati Uniti come faro della democrazia non ha guadagnato punti quattro anni fa quando si disse che la vittoria di Trump era stata agevolata dalle intrusioni informatiche di Vladimir Putin, il che non equivale a un elogio degli elettori americani e dell’apparato di sicurezza. Ma forse era una fake news per spiegare l’imprevista sconfitta di Hillary Clinton con il corollario, non voluto, di gratificare la Russia di una straordinaria capacità di influenza. Né l’immagine della democrazia americana ci guadagna oggi con l’ostinazione di Trump che afferma di «avere vinto» lui: il riconteggio
a mano dei voti in Georgia non è la soluzione.

Ognuno dei 50 Stati ha il proprio sistema elettorale, politico, amministrativo, giudiziario, tradizioni e
metodologie diverse. La superpotenza militare non può avere un Presidente i cui poteri funzionano a
fisarmonica e un giudice qualsiasi, pure rispettabilissimo, non può bloccare la macchina governativa. Il
potere deve avere dei limiti, ma ha anche dei diritti. Nella Dichiarazione d’Indipendenza del 4 luglio
1776 è detto che i governi, oltre a proteggere i diritti dei cittadini, hanno il compito di procurare la
Sicurezza e la Felicità del «popolo»: non è un compito da poco.

La natura federale degli Stati Uniti aveva un senso quando gli Stati erano le Colonie e alle Tredici
originarie se ne aggiungevano altre. Le circostanze hanno accresciuto i poteri dell’Esecutivo (il
Presidente) ma la situazione è rimasta aleatoria e il meccanismo dei «pesi e contrappesi» è tanto bello
in teoria quanto rischioso in pratica. Una situazione, assai frequente, in cui il Presidente è espressione
di una maggioranza e il Congresso, o una delle due Camere, è controllato dall’opposizione, può essere
un «caso» molto interessante per i politologi e ricco di stimoli per la cronaca politica, ma la politica
reale ha altre esigenze. Un «eccezionalismo» che sfocia nel folklore non serve.

Ecco il punto: il Deep State potrebbe essersi convinto che il sistema istituzionale deve essere
modificato, ma senza mettere sotto accusa o criticare il modello dei Padri Fondatori. Approfittando di
alcune vicende, che possono sempre essere considerate occasionali, si cambia qualcosa o, almeno, si
avvia un cambiamento, monitorando con attenzione le reazioni che si manifesteranno a favore o contro.
In questa prospettiva, la stessa «ostinazione» di Donald Trump fa gioco e farebbe apparire un eventuale
processo di riforma istituzionale come un progresso.

È impossibile tracciare una scaletta delle mosse future, ma una cosa sembra certa: se Trump non
cede, vuol dire che ha in animo di tentare di trasformare il Partito Repubblicano, o una parte di esso, in
qualcosa di simile a un partito europeo: con una ideologia abbastanza definita e una organizzazione
nazionale permanente, non attivabile solo in vista delle elezioni e non segmentata in ogni singolo Stato,
ma in grado di svolgere quotidianamente una politica nazionale, o come forza al governo (con il
Presidente) o come forza all’opposizione (come governo-ombra di stile britannico). Al termine del
percorso si avrebbe un passaggio netto dal presidenzialismo al parlamentarismo o un passaggio
intermedio, sullo stile francese, al presi-parlamentarismo.

Di più non siamo in grado di dire. Né si può escludere che, dopo i fuochi d’artificio, tutto torni alla
normalità e a una corale esaltazione della stabilità del sistema. Il Partito Democratico sarebbe per questa
seconda ipotesi poiché avrebbe maggiori difficoltà a dotarsi di una ideologia nazionale essendo più
composito nella sua consistenza. Il trumpismo, se diventasse un partito stabile, eventualmente
all’opposizione nei prossimi quattro anni, costituirebbe una forza d’urto capace di fare esplodere la
variegata coalizione democratica. Questo è, forse, il progetto di Donald Trump e di chi ne condivide
l’obiettivo a lungo termine che va al di là della sua persona.

Difficoltà se ne profilano parecchie, la più importante delle quali è la resistenza degli Stati (California, Texas, Michigan, ecc., veri Stati nello Stato), o almeno alcuni di essi, i cui poteri verrebbero non solo ridotti ma anche sconvolti. Ma una cosa è certa: il «laboratorio America» è da seguire con grande attenzione e interesse.

Alessandro Corneli

Pubblicato su Servire l’Italia ( CLICCA QUI )

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