Finora le pale del mulino a vento del “centro” – chiamiamolo pure convenzionalmente così, anche se il termine non dà esattamente conto della funzione politica che gli dovrebbe competere – hanno girato vorticosamente a vuoto. Ora è tempo che comincino a macinare. Temi, proposte, contenuti, progetti che, per parte nostra, abbiamo cercato di indicare, anche attraverso il recente congresso.
Dalla semina al raccolto, in campo politico, un tempo, per quanto ancora in apparenza discretamente ampio, può dissolversi in un soffio. In altri termini, non restano che pochi mesi a disposizione – tutt’al più da qui a fine anno e non oltre – perché si chiarisca, una volta per tutte, se i vari attori di questo supposto “centro” siano in grado o meno di adottare concordemente una strategia di “trasformazione” del nostro sistema politico, così come da parte nostra invochiamo da anni, fin dalla presentazione del nostro Manifesto fondativo, nel novembre 2019 (CLICCA QUI).
Fin qui al “centro” si e’ visto soprattutto un gioco di reciproca interdizione tra i principali protagonisti, ciascuno alla ricerca del miglior posizionamento per la propria parte, piuttosto che di un impegno comune. Insomma, tante, perfino troppe schermaglie tattiche, ma senza una visione condivisa o una chiara e davvero condivisa finalizzazione strategica.
Ma poiché l’Italia ha urgente bisogno di un fatto politico nuovo che la trascini fuori dalle ganasce del bipolarismo maggioritario è tempo di chiedersi se e come si possa fare sul serio.
Per parte nostra, avanziamo alcune osservazioni di metodo e di merito, che offriamo alla discussione di ogni altro soggetto sia interessato a tessere l’ordito di questo impegno comune.
La prima questione concerne la forma di questo agognato “centro”. Sembra si discuta, da parte di qualificati esponenti del nostro establishment politico, di un nuovo “partito” di centro. Come su queste pagine sosteniamo da tempo, si dovrebbe pensare piuttosto ad una “coalizione”, nel senso degasperiano del termine, cioè ad un’alleanza tra soggetti che siano consapevoli delle loro differenze e, dunque, affrontandole a viso aperto, senza rinunciare ognuno alla propria originalità, ne facciano un punto di forza e non una debolezza. Al contrario – emblematica, a tale proposito, la parabola dei PD – le forze politiche che nascono da una fusione a freddo tra esperienze di diversa natura, per forza di cose, coabitando le stesse stanze, devono nascondere le loro differenze sotto il tappeto, da dove, poi, finiscono per esercitare un effetto corrosivo che compromette il disegno da cui si era partiti.
Il secondo punto concerne l’autonomia del “centro” dall’uno e dall’altro dei due schieramenti. Non abbiamo bisogno di una forza di interposizione tra la destra e la sinistra che finisca per essere a sua volta smembrata in due; oppure, di fatto, assorbita dall’una o dall’altra, tornando sostanzialmente alla condizione “quo ante”, cioe’ dissolvendosi nel gioco della reciproca delegittimazione dei due poli.
Abbiamo, invece, bisogno di una forza che nasca fuori dal perimetro del bipolarismo maggioritario e rappresenti l’incipit di una alternativa che non sia solo “nel sistema, ma “di sistema”.
Un “centro” che nascesse con la recondita intenzione di accomodarsi nel
grembo dell’una o dell’altra delle estreme – a parte la fruizione di qualche “strapuntino” – non avrebbe alcun senso.
L’autonomia, comunque, non è solo una questione di schieramento, bensì, anzitutto, di elaborazione e di proposta politica. Anzi, senza quest’ultima, la prima vacilla.
Autonomia non significa chiamarsi fuori dal discorso pubblico, né isolarsi dalle relazioni che concorrono alla complessiva architettura del sistema politico. Vuol dire, piuttosto, rivendicare in ogni contesto con cui si interloquisca, la particolare specificità della propria postura politico-programmatic. Del resto, le mediazioni, pur sempre necessarie, hanno bisogno di posizioni chiare e distinte da cui prendere le mosse. Se così non fosse, approderemmo non a mediazioni, ma, più o meno, a pasticciati compromessi.
La terza osservazione riguarda, nel solco
del pensiero di Don Sturzo, la coalizione – nel suo caso si trattava del partito- “di programma”.
Detto altrimenti, l’architrave che può reggere questa ipotetica nuova presenza nel sistema politico del nostro Paese, non può essere una qualunque ambizione di potere, ma piuttosto una concreta assunzione di responsabilità condivisa nei confronti del “bene comune” della collettività.
Secondo la consapevolezza – assai viva negli anni della ripresa post-bellica e poi del boom economico – che l’interesse particolare di ognuno è legittimo e perseguibile solo nella cornice dell’interesse generale del Paese.
Oggi viviamo, invece, in una società sgranata, che, povera di coesione sociale e priva del sentimento di appartenenza ad un orizzonte comune, ha smarrito questo riferimento, dopo decenni di enfatizzazione di una cultura marcatamente individualista.
La priorità che abbiamo indicato è per una organica politica dei diritti sociali, ritagliata sul sostegno alla vitalità
della famiglia: il lavoro e la casa, l’educazione dei figli, la loro salute, la cura delle persone fragili. Una battaglia senza quartiere alla più avvilente forma di povertà, quella educativa di bambini ed adolescenti, una minaccia più diffusa di quanto si pensi e corrosiva del diritto di cittadinanza presente e futura di importanti fasce giovanili. Ed a seguire le altre proposte che si evincono dal documento congressuale in cui sono sintetizzate molti degli approfondimenti politico-programmatici che abbiamo sviluppato in questi anni.
Domenico Galbiati