La presidente del consiglio ha rilanciato il tema della riforma dell’esecutivo partendo dalla bandiera del presidenzialismo e avviato le consultazioni con le forze politiche di opposizione per verificare la possibilità di un largo consenso. Vale la pena svolgere alcune riflessioni su modo e sostanza di questo tema.

In primo luogo, si deve partire dai principi che dovrebbero regolare le riforme costituzionali.  Il primo, è il principio di conservazione: le costituzioni, che sono fatte per regolare nel tempo la convivenza politica al di là delle maggioranze temporanee al potere, è meglio non toccarle fino a che non sia chiaramente dimostrato che qualche meccanismo da esse regolato non funzioni e produca inconvenienti seri alla vita politica democratica. Il secondo è il principio del consenso: poiché le costituzioni devono assicurare regole valide super partes è bene che le modifiche avvengano con un largo consenso pena la loro delegittimazione da parte delle minoranze non coinvolte. Infine il terzo principio è quello della razionalità allo scopo e della determinatezza degli effetti delle riforme: in sostanza le riforme proposte devono effettivamente servire allo scopo che si propongono e prima di introdurle occorre avere una ragionevole certezza (possibilmente acquisita sulla base di altre esperienze) sugli effetti che esse possono conseguire.

Di questi tre principi il governo Meloni sembra voler tenere conto, almeno all’inizio della partita, del secondo, quello del consenso. Vedremo poi se continuerà su questa strada; molto meno chiaro è invece il rispetto del primo e ancora meno sappiamo del terzo anche perché non è finora chiaramente enunciato quale schema di riforma “presidenziale” si vorrebbe attuare.

Riguardo al primo punto, a parte settori piuttosto marginali, non sembra vengano mosse importanti di critica alla presidenza della repubblica come è attualmente regolata. L’elezione parlamentare dei presidenti della repubblica è avvenuta, magari con una certa fatica (in media 9,8 scrutini), ma per lo più con un consenso di maggioranze allargate; ha portato all’elezione di figure di notevole prestigio, che hanno per lo più svolto un ruolo super partes, come ci si attenderebbe da questa istituzione, e mostrato la capacità di intervenire con soluzioni adeguate quando i partiti parlamentari non erano in grado di costituire maggioranze di governo. Su questo fronte non ci sarebbero quindi ragioni sufficienti per modificare la costituzione. E’ semmai sul fronte del governo che si lamentano aspetti come la durata troppo breve dei governi o il fatto che ad essi manchi una investitura popolare diretta e quindi sia tolto all’elettorato questo potere democratico.

Sulla sostanza e rilevanza di questi due punti si può discutere, ma soprattutto ci si deve chiedere se, per rispetto al terzo principio, le soluzioni proposte sarebbero adeguate. Vediamole sinteticamente.

Il presidenzialismo, adottato negli Stati Uniti e in America Latina comporta una netta separazione tra il presidente eletto popolarmente e il parlamento (congresso). Le due elezioni separate comportano però la possibilità di maggioranze politicamente diverse per le due istituzioni e di conseguenza anche di uno stallo legislativo e di bilancio. Poichè per entrambe le istituzioni è previsto un mandato fisso e non ci sono meccanismi di sfiducia e di scioglimento anticipato, se tra queste istituzioni non si trova la strada del compromesso l’esecutivo può trovarsi in grosse difficoltà. Per questi motivi e per la distanza dalla cultura politica europea sembra difficile che questa soluzione venga veramente perseguita.

Il cosiddetto semipresidenzialismo, ma dovremmo più esattamente chiamarlo parlamentarismo con presidente eletto, prevede invece che il governo dipenda dalla fiducia (o non-sfiducia) del parlamento, ma che contemporaneamente il capo dello stato sia eletto popolarmente. Questa formula, inaugurata (con poco successo!) dalla repubblica di Weimar, è stata adottata dalla Francia nel 1958 e poi largamente in Europa; ed è oggi quella prevalente ma con esiti funzionali assai differenti. Il caso francese, nel quale il presidente eletto è il vero capo dell’esecutivo e il governo dipende in sostanza da esso (salvo che nella cosiddetta coabitazione quando in presenza di una maggioranza parlamentare diversa il presidente non può nominare il governo di suo gusto), e che viene spesso presentato come emblematico di questa formula, è in realtà l’eccezione. Negli altri casi il presidente, pur eletto direttamente, ha un ruolo prevalentemente simbolico mentre il vero governo è quello espresso a seguito delle elezioni parlamentari.

Il modello francese a prevalenza presidenziale è in realtà prodotto più che dalla normativa costituzionale che lascerebbe aperte anche altre strade, da una serie di condizioni politiche come il ruolo formativo iniziale del generale De Gaulle, e la debolezza dei partiti francesi che vengono plasmati e riplasmati dai presidenti o candidati presidenziali. Replicarlo è tutt’altro che scontato. Negli altri casi la vera competizione politica, che vede impegnati i leader dei partiti, è quella delle elezioni parlamentari e non delle elezioni presidenziali. In queste ultime si presentano per lo più o politici ormai fuori dai giochi più importanti, o personalità tecniche.

L’elezione diretta del presidente non garantisce quindi durata e capacità decisionale dei governi, che restano dipendenti come in Italia dai risultati delle elezioni parlamentari; può però indurre ad una certa conflittualità tra un presidente che comunque può farsi forza di una investitura popolare e il capo del governo che trae la sua investitura dal parlamento. Ma il presidente non può imporre facilmente un “suo” governo, semmai, se ne ha il potere, può sciogliere il parlamento.

Veniamo infine al terzo modello, a volte chiamato premierato, ma che sarebbe più preciso chiamare parlamentarismo con capo del governo direttamente eletto. Questo modello adottato nel 1992 in Israele e rapidamente archiviato per la sua cattiva prova, comporta un capo del governo eletto direttamente dal popolo, ma che può essere sfiduciato dal parlamento qualora questo esprima una maggioranza diversa. A meno di forzare un comune colore politico del capo del governo e della maggioranza parlamentare attraverso norme elettorali che tolgano all’elettore la possibilità di diversificare il proprio voto, questo modello rende possibile un conflitto di non facile soluzione tra due legittimità popolari diverse, conflitto che può essere risolto solo con nuove elezioni tanto del parlamento che del capo del governo.

Da queste brevi osservazioni, che non tengono conto di possibili varianti da analizzare separatamente, si possono ricavare alcune conclusioni che sollevano dubbi non indifferenti sulla utilità di simili riforme costituzionali per risolvere i problemi del sistema politico italiano.

Solo il presidenzialismo puro e il premierato consentono all’elettore di scegliere effettivamente e senza mediazioni il capo dell’esecutivo, ma entrambe queste soluzioni aprono la possibilità di un conflitto tra esecutivo e parlamento che può indebolire drasticamente la capacità di governo se non c’è una vera disponibilità delle parti alla mediazione. Il cosiddetto semipresidenzialismo nella sua versione del tutto prevalente è in realtà una forma di parlamentarismo, che però rende molto più incerta la funzione arbitrale del capo dello stato perché lo fa eleggere attraverso un confronto elettorale popolare. Infine il semipresidenzialismo alla francese non sembra facilmente replicabile e in ogni caso non esclude la possibilità di una coabitazione con esiti potenzialmente conflittuali tra un presidente di un colore politico e una maggioranza opposta che controllerebbe il parlamento.

Questa breve sintesi fa dubitare fortemente che questi modelli istituzionali possano rispondere con un tocco di bacchetta magica istituzionale all’esigenza di un esecutivo più fortemente legittimato, stabile e più efficiente di quanto non avvenga con il normale sistema parlamentare. A meno di non aggiungere vincoli istituzionali ed elettorali di varia natura per forzare l’omogeneità politica tra esecutivo e parlamento. Una scelta da considerare poco raccomandabile perché svilirebbe la funzione del parlamento e limiterebbe le scelte dell’elettore.

Questo non esclude naturalmente che qualche più limitata correzione all’attuale modello parlamentare non possa essere considerata, ma senza attribuire ad esse effetti taumaturgici. Però, l’effetto più negativo di questo dibattito sarebbe che si dimentichi la variabile che più di tutte incide sulla stabilità ed efficacia dei governi, cioè la qualità dei partiti. Si dimentichi cioè che questi partiti del capo, con una cultura politica sempre più evanescente, senza un vero aggancio con le realtà del paese e spesso privi al loro interno di procedure veramente democratiche non sono in grado di dare in parlamento un sostegno solido ai governi. Sarebbe utile allora qualche serio esame di coscienza sulle scelte programmatiche poco meditate che si presentano in sede elettorale, sulle pratiche di reclutamento qualitativamente scadenti dei propri rappresentanti, sulla scarsa serietà degli accordi di coalizione e anche sulla funzionalità dei gruppi parlamentari. Sono disponibili i leader attuali dei partiti a farlo?

Maurizio Cotta

 

 

 

 

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