I governi occidentali sono in questo momento sotto tiro e di fronte all’epidemia stanno tutti affrontando il dilemma fra approccio “duro” (restrizioni a maglie strette) e approccio “morbido” (restrizioni più selettive). Nel linguaggio del numero in edicola dell’Economist i due approcci sono indicati con i termini “mitigation” e “suppression”. Seguire -con distacco e oggettività – l’intreccio fra questi approcci in tutti i paesi colpiti sta entrando ormai a far parte della nostra informazione “di base”, anche per valutare più oggettivamente ciò che accade a casa nostra.

Si tratta di un trade-off fra rischi sanitari (più morti) e rischi economici (più estesi e più prolungati danni all’economia). Abbiamo assistito ad oscillazioni (sia in Italia che all’estero) e a veri e propri capovolgimenti improvvisi di scelte di governo dell’epidemia.

Non è solo la Gran Bretagna di un leader molto discusso come Johnson a esibire tali incoerenze di approccio. Sono inevitabili: dipendono infatti sia dal fatto che modelli previsionali robusti non ne esistono e quindi ogni governo spera – all’inizio – di scampare al flagello (la geografia della pandemia è piena di incongruenze), sia da una serie di variabili: virulenza dell’attacco epidemico, robustezza del sistema sanitario, caratteristiche della struttura economica, ma anche mentalità diffusa, valori dominanti in ciascuna società, equilibri politici, ecc.

Questo è il motivo per cui trovo ingiustificata da parte del Governo la rivendicazione di un “modello italiano” (se mai, si dovrebbe parlare di “modello cinese” adottato, in contesto democratico, dall’Italia quale Paese investito per primo dall’epidemia) e ancora meno l’orgoglio che si associa a questa rivendicazione.

E’ facile prevedere, invece, che assisteremo ancora ad oscillazioni fra i due approcci di fondo, per il semplice motivo che in molti paesi l’epidemia è appena agli inizi mentre in altri (come l’Italia), così come sono state problematiche le scelte operate nella fase del primo impatto e della crescita dei contagi, sarà altrettanto difficile gestire politicamente la fase della “discesa”.

Qui toccherà ancora a noi fare da battistrada, questa volta davvero per primi perché la situazione cinese è ancora meno paragonabile alla nostra (se non altro per motivi dimensionali) su un tema delicatissimo: quello della ripresa delle attività normali.

Infatti anche l’approccio “soppressivo” (chiusura totale per minimizzare il numero dei morti) non è – in realtà – affatto soppressivo: ci toccherà affrontare una convivenza fra ritorno alla normalità e continuazione del contagio (sia pure mitigato), e sarà molto difficile per le autorità di governo dosare il passaggio dalla “suppression” alla “mitigation”, per di più in un paese diviso come il nostro. Questa materia non mancherà di riaccendere lo scontro politico.

Quello che però dovrebbe emergere – in un dibattito pubblico così complesso – è almeno un inizio di riflessione sull’economia che ritroveremo all’uscita da questo tunnel.

Premetto che non sono un esperto in materia e mi limito a porre – in forma problematica – alcuni punti di domanda e ad auspicare che la stampa specializzata nelle prossime settimane (o mesi) ci offra elementi di analisi, se non le vere e proprie risposte che sarebbe ingenuo aspettarsi.

Il primo – e fondamentale – per me è il seguente: che peso avrà il colosso cinese nell’economia del dopo-Coronavirus? In particolare, è possibile che questo evento così traumatico ne produca un significativo innalzamento del peso specifico?

Ci sono alcuni motivi che possono indurci a ragionare in questo senso:

  1. le sue dimensioni – combinate alla semplificazione decisionale garantita da quel tipo di organizzazione della società e dello stato – le hanno consentito di non interrompere neanche per un giorno il funzionamento di tutte le sue filiere produttive. Il dipartimento dell’Hubei ha dovuto essere bloccato ma il resto del Paese ha continuato a produrre;
  2. il vero e proprio blocco prolungato delle singole economie occidentali (tranne, ma è da vedere, quella americana) renderà invece molto più pesanti gli effetti della crisi, aprendo necessariamente all’offerta cinese – e per un periodo difficilmente determinabile – mercati nuovi di dimensioni immense. A ben guardare, ciò sta già avvenendo anche se non sappiamo ancora in che scala. Infatti, le nostre imprese manifatturiere più legate all’esportazione già stanno lanciando un serio allarme (raccolto con distrazione dal Governo, impegnato a stendere liste di divieti): “se non riprendiamo la produzione entro pochissime settimane molti mercati saranno persi per sempre”. Osservo che già oggi Goldmann Sachs dà la nostra economia, a fine anno, a -11,6, la peggiore del continente;
  3. una situazione economica straordinaria quale quella che si prefigura può rappresentare un ambiente più favorevole ad un sistema “rigido” e centralizzato, quale quello cinese, piuttosto che ad uno flessibile ma anarchico quale quello occidentale.

Se queste ipotesi si rivelassero fondate, ne risulterebbe che la nuova crisi potrebbe non essere solo una crisi quantitativa (caduta del PIL globale, ecc.), quali quelle a cui siamo mentalmente abituati, ma avere profondi effetti qualitativi e geopolitici.

Potremmo assistere ad una mutazione del ruolo dello Stato nelle nostre economie, per assimilarsi – e quindi competere più facilmente – con il modello più efficiente. Ma (attenzione!) ciò potrebbe accadere non per una illuminata scelta dei cittadini di libere democrazie che prendono razionalmente atto della necessità di una maggiore presenza dello Stato nella gestione dei “beni comuni”. Questi cambiamenti, indotti da uno stato impellente di necessità, potrebbero invece portare con sé delle forzature – delle alterazioni – nei modelli democratici consolidati e saldarsi con quel fascio di fenomeni che oggi viene definito “crisi della democrazia”. Insomma, per intenderci, anche se può apparire molto pessimistico: immissione massiccia di statalismo (con venature autoritarie) anche in quelle che ad oggi sono democrazie consolidate.

Potremmo assistere a spostamenti bruschi – veri e propri strappi – di pesi geopolitici se e nelle forme in cui la crisi si intreccerà con focolai di guerre regionali, sempre attivi nel mondo contemporaneo.

Potremmo inoltre assistere ad un’altra forma di spostamento dei pesi: quella della penetrazione del capitalismo cinese al di là dei confini africani – dove sembra aver ormai consolidato la propria egemonia – in direzione di un’Europa economicamente indebolita e politicamente in prolungata difficoltà. Segnali in questa direzione sono ben presenti già sulla sponda Nord del Mediterraneo nella grande logistica (Pireo, Trieste), nella battaglia senza esclusione di colpi per l’infrastruttura che dovrà servire il 5G. In Italia anche nella ostentazione della “relazione speciale” con la Cina da parte di una forza politica (di governo) di estrema spregiudicatezza.

La Via della Seta – è stato segnalato dai più qualificati osservatori della situazione internazionale – è, prima di tutto, una grande operazione geopolitica che ha effetti diretti sulla sicurezza dei Paesi attraversati.

Diciamo quindi che – a livello economico – è possibile che ciò che sta accadendo non sia qualcosa di neutrale che si ripartisce in modo uniforme sul pianeta. Potrebbe invece accadere (la mia è una domanda e non ha la pretesa di una previsione) che l’epidemia si riveli un potente kick off di una nuova fase nell’avvicinamento della Cina al proprio obiettivo di carattere egemonico. Obiettivo – per ora – radicato più che su dati di fatto decisivi, nella mitologia del nazionalismo cinese. Ma è preoccupante che la forza di questo nazionalismo sia ancora troppo poco conosciuta in Occidente, mentre (ahimè) è assai probabile che il tema sia del tutto ignoto al nostro Ministro degli esteri.

Tuttavia, credo che – in un mondo così difficile e interconnesso – come l’epidemia certamente ci ha segnalato, interrogativi di questo genere debbano entrare sempre di più a far parte del nostro sguardo sulla realtà. Se non altro per intravedere rischi e sollecitare contromisure.

Enrico Seta

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