Ogni 15 secondi, nel mondo si verificano 153 infortuni sul lavoro. Ogni giorno 6300 persone muoiono di conseguenza o per malattie professionali. Oltre 2,3 milioni i lavoratori deceduti nel corso dell’intero anno. Sono i drammatici dati che tiene aggiornati l’Ilo, l’Agenzia per il Lavoro delle Nazioni Unite che ha una sede internazionale anche a Torino.
È evidente che noi italiani dobbiamo fare una comparazione con quanto accade nei paesi più avanzati. E scopriamo che, se nella sommatoria di ciò che vengono definiti incidenti sul lavoro, l’Italia è sopravanzata da Germania e Francia, nel caso di quelli con un esito mortale siamo i primi in classifica con una media di quasi 800 l’anno.
È del tutto scontato dire che siamo di fronte ad una vera e propria emergenza nei cui confronti appariamo assolutamente impreparati com’è, del resto, consuetudine nel caso di tante altre emergenze sociali quali sono quelle degli incidenti domestici, di quelli stradali e dei femminicidi.
Fenomeni che avrebbero tutti bisogno di un intervento multidisciplinare che invece manca. Preferiamo lanciare grandi grida d’allarme, profonderci in considerazioni e pianti mentre politica ed istituzioni mostrano chiaramente la mancanza di una cultura “della vita” che dovrebbe trovarle impegnate allo spasmo per frenare, se non arrestare del tutto, ciò che toglie a tante famiglie i propri cari e, nel caso specifico, la dignità al lavoro.
Anche nel caso del giovane indiano Satnam non sono mancati lo sdegno, la solidarietà e un lodevole impegno a spingere all’aumento dei controlli. Sono giunte anche delle proposte, ma che non sembrano affatto adeguate. Così come inadeguate appaiono tutte le lamentele sul caporalato che costituisce una piaga un po’ dappertutto e verso cui non si prende alcun provvedimento radicale, nonostante siano anche note le responsabilità della criminalità organizzata.
È evidente, ovviamente in attesa delle conclusione degli inquirenti, che il giovane lavoratore indiano sia stato vittima di molte irregolarità che spiegano anche le barbare condizioni in cui è stato lasciato dopo la sciagura. Era un clandestino e impreparato ad usare il macchinario che stava utilizzando. E così è stato trattato come uno scarto che qualcuno si illudeva di nascondere.
Il caso di Satnam può essere considerato, dunque, emblematico per gli incidenti in cui sono coinvolti immigrati illegali. Spessissimo costretti a rischiare la vita per pochi euro di paga oraria. La sua tragica vicenda, resa tanto drammatica dalle circostanze successive al fatto, non può far dimenticare quanti di questi sfruttati sono morti, tanto per restare all’agricoltura, per l’eccesso delle ore di lavoro loro richiesto, per essere costretti a lavorare nei campi nelle ore più torride, anche nel pieno dei mesi estivi. E lungo potrebbe essere l’elenco delle cause che, certamente, richiamano la mancanza dei controlli. Un fenomeno cui in troppi , evidentemente, pensano si più opportuno non prestare l’attenzione necessaria Soprattutto nelle zone rurali dove tutti, anche le forze dell’ordine, i sindaci e i sindacati sanno tutto di tutti.
Sappiamo che sarebbero ben 250mila le aziende considerate a rischio di cui, ogni anno, ne vengono sottoposte a controllo circa 4.500. La Ministra del Lavoro, Calderone, ha subito reso noto che c’è l’impegno ad aumentare i controllo del 100%. Cioè a farne circa 9mila. Chiaramente ciò non basta. Ci immaginiamo cosa i colleghi di governo le risponderebbero se lei, invece, chiedesse di rispondere all’emergenza con interventi straordinari, come doveroso. Le direbbero che se lo scordi, perché non ci sono i soldi. Quindi dovremo continuare a piangere altre vittime nei campi e nelle fabbriche.
C’è poi da chiedersi quanto potrebbero incidere i pur necessari controlli se non fossero accompagnati da altre azioni da intraprendere nei confronti di quegli imprenditori, manager d’azienda, capi squadra che trascurano le norme sulla sicurezza e lasciano correre. Soprattutto, se operano in subappalto e, magari pure loro, vittime del massimo ribasso.
E allora cominciamo a parlare di norme speciali da applicare a questo tema. Parliamo di una intera filiera chiamata a rispondere penalmente e civilmente di qualunque incidente possa accadere. Anche i primi soggetti appaltanti dovrebbero preoccuparsi di tutto ciò che salva la vita dei lavoratori. Valutiamo la possibilità di chiudere le imprese che non sono in grado di rispondere ai requisiti minimi per non costituire il “luogo del delitto”. Ed anche quella che, una volta accettate le responsabilità, magari prevedendo procedimenti giudiziari accelerati, e in via cautelare, già subito dopo il primo grado di giustizia, sia impedito a tutte le aziende coinvolte di partecipare a concorsi e appalti pubblici e trattare gli amministratori al pari dei bancarottieri.
C’è poi da parlare della formazione, degli orari di lavoro, d’interventi particolari e specifici per aziende e categorie a rischio. Non basta, insomma, il dispiacere di prammatica e gli inevitabili interventi immediati di cui si parla. Quel che è necessario, ne viene la conferma anche dal caso di Satnam, è che si trovino i soldi necessari a trattare questa emergenza per rimetterci in carreggiata in modo da poterci considerare un paese civile e non disumano.
Una delle proposte avanzate in queste ore è quella di finanziare le aziende per farle impegnare di più per evitare gli incidenti sul lavoro. Cosa che, però, finirebbe con i soliti interventi a pioggia con ulteriori danni pronti dietro l’uscio. Non si tratterebbe solo di continuare a far gravare sui conti pubblici costi che dovrebbero far parte del rischio d’impresa, tra cui ci sono tutti quelli richiesti dal rispetto delle regole, ma pure d’introdurre ulteriori distorsioni del mercato grazie alle quali gli imprenditori seri ed onesti sono danneggiati per primi dai loro colleghi sfruttatori degli esseri umani.
Giancarlo Infante