Il tema dell’ aborto, rievocato in questi giorni dalla presa di posizione del Parlamento Europeo, rappresenta il terreno ideale per esaminare come la ricomposizione tra il versante dell’ “etica” e quello del “sociale” – laddove, tra l’altro, si registra la divaricazione più vistosa in capo all’elettorato cattolico, nel nostro Paese – sia un argomento di rilievo sostanziale. Soprattutto, a fronte di quella rivisitazione delle sue ragioni fondative di cui la democrazia oggi ha bisogno per rispondere alle sfide del nostro tempo. Le quali assumono, in modo particolare, la matrice dichiaratamente “illiberale” delle autocrazie.

Tra queste ultime e le democrazie, nei termini generali secondo cui le concepiamo ad Occidente, il discrimine effettivo, la differenza sostanziale da cui prendono ispirazione e forma le diverse fenomenologie del potere che caratterizzano l’uno e l’altro dei due ordinamenti, in ultima istanza, si rifanno ad un dato antropologico. Cioè, ad una concezione – non necessariamente messa espressamente a tema, come fosse subliminale ed implicita in un certo “sentimento” originario – di cosa siano l’uomo, la libertà, la storia.

Le autocrazie, le dittature sono incardinate – per lo più’ strumentalmente alle ragioni nude e crude di un potere che non ammette limiti al suo raggio d’azione, ma anche in virtù dei loro retroterra culturali – su una concezione negativa e crepuscolare dell’ “umano”. Ciò è, ad un tempo, causa ed effetto, della loro incapacità di cogliere il valore della persona come “essere in relazione”. E questo, a sua volta, ultimissimamente, deriva dal non saper comprendere la vita come “dono”. Il che vuol dire assumerla, appunto – poiché il dono chiede, a sua volta, di essere donato – come capacità di rapportarsi gli uni agli altri, in una integrazione reciproca che, anziché cancellare la particolarità di ciascuno, la arricchisce.

Vita, dunque, che non è paga se non quando giunge al “relato” cui costitutivamente aspira e tende. Aperta, quindi, ed in perenne espansione. Esattamente in controtendenza si avvita, al contrario, secondo una deriva centripeta ed involutiva, la concezione autoreferenziale della vita immaginata come dato di mero ed esclusivo possesso individuale.

Le autocrazie, nella misura in cui non focalizzano la persona, non conoscono il “popolo”, bensì la massa; non ammettono la “comunità”, bensì il collettivo. Nella misura in cui non conoscono la persona, non ne ammettono la libertà che è esattamente quel carattere distintivo che, per i credenti, la attesta ad immagine e somiglianza del Creatore. Manca loro quella circolarità di rapporti che, via via, ne consolida la trama, cosicché progressivamente formano un comune patrimonio “popolare” di aspirazioni e di attese. Grazie alle quali la vita trascende sé stessa, va oltre il muro della semplice sopravvivenza e si riconosce in una speranza che le da’ senso e, quindi, ne arricchisce ogni gesto, proiettandolo ad un fine. Al contrario la massa consiste in un cumulo di solitudini che singolarmente si rapportano ad un potere sovraordinato, la cui legittimazione è data solo dalla forza che arbitrariamente esercita.

In definitiva, collettivismo ed individualismo si intrecciano e si sovrappongono in una miscela venefica che progressivamente avvilisce ed ottunde la sensibilità morale, la capacità critica, l’autonomia di giudizio del cittadino, a quel punto prono alla propaganda che il regime gli somministra. Massificazione ed atomizzazione del contesto civile si sommano, si condizionano e si sostengono a vicenda.

Senonché, anche le democrazie liberali non devono disarmare. Sono anch’esse incalzate dalla cultura di un individualismo esasperato che le rende sgranate e liquide, allenta le relazioni, compromette la coesione sociale, cosicché illanguidisce il sentimento “popolare” di comune appartenenza ad un orizzonte di senso
condiviso. Via via, con lenta progressione, quasi per osmosi, anche da noi subentra – ad esempio, secondo la postura del sovranismo – un conformismo non meno amorfo, ottuso, ipocritico di certe forme di collettivismo che storicamente non ci appartengono.

Il “putinismo” di certe forze è meno occasionale, più radicato e sintonico di quanto forse immaginiamo.
E’ necessario che i Paesi liberi mantengano costantemente vivo l’orientamento alla “persona”. Per quanto dobbiamo seriamente riflettere circa le forme che deve assumere la democrazia del tempo post-moderno, è difficile immaginare che il principio superiore che deve sovraintendere a questo progetto non possa essere che una riscoperta del valore fondativo della persona. La quale non può essere attraversata da una linea di demarcazione che distingua e separi una più spiccata sensibilità per i suoi valori che attengono la sfera etico-antropologica da una più viva attenzione ai valori della socialità.

Da anni, come cattolici, siamo stati autorevolmente invitati a ricomporre questa frattura, pur in un contesto di acquisito pluralismo dell’espressione elettorale del nostro retroterra culturale. Non si difende il rispetto della vita e la dignità della persona se non entro una linea politica generale di solidarietà attiva. E non si promuovono i diritti sociali, la libertà e la giustizia se non in un quadro di attenta e scrupolosa considerazione del valore originario, irriducibile ed inalienabile della vita.

Domenico Galbiati

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