L’Europa batte un colpo? Pare di si. La solidarietà fa sempre piacere (darla come riceverla) perché riscalda il cuore. Quindi tutto ciò che segue in questa nota non deve cancellare o sminuire il senso di sincera gratitudine dovuto a tutti coloro che – in Europa – si dimostrano sensibili alle nostre sofferenze.
Ma parlare di Europa significa toccare un tema di alta valenza politica. E quindi meritevole di serietà e di attenzione a tutto ciò che accadrà nello scenario europeo nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.
Se questo è vero – e personalmente ne sono convinto – occorrerà iniziare con l’attribuire alle mere dichiarazioni di solidarietà che vengono elargite in questi giorni il loro giusto valore politico. Che può essere anche assai scarso (che conseguenze pratiche ha avuto – ad esempio – la gita in Grecia delle massime cariche europee meno di tre settimane fa?).
Sulle novità di questi giorni a me sembra:
- che la decisione di allentare i vincoli del patto di stabilità – pur utile e necessaria – non segni ancora quella vera e propria svolta antiausterity che da tempo viene auspicata. E non può essere scambiata per ciò che non è. Si rimane infatti nel canone dei principi che vedono nella sostenibilità di bilancio la stella polare delle istituzioni finanziarie e politiche di Bruxelles in quanto l’allentamento ha solo carattere temporaneo, come è stato ben sottolineato;
- i 750 miliardi promessi dalla BCE per operazioni di mercato sui titoli di stato dei paesi UEM e bond privati è anche questo un intervento di mera emergenza (fra l’altro ha una scadenza ben precisa: la fine del 2020). Se si pensa che tale cifra riguarda tutti i paesi UEM e che la sola Italia per il solo anno in corso dovrà emettere oltre 400 miliardi di titoli di stato se ne coglie meglio il rilievo. Quindi è bene essere consapevoli che l’ombrello BCE non ci mette al riparo dal rischio di innalzamento dello spread (se non nel brevissimo) nel breve periodo. E’ evidente che siamo ben lontani dal “whatever it takes” di Draghi e che si tratta solo di un atto dovuto per scongiurare un rischio speculativo immediato. Incertezza massima invece su quali saranno le future politiche della BCE. Anzi, a giudicare dalla “voce dal sen fuggita” alla Lagarde – costata da sola 870 miliardi di capitalizzazione nelle borse – c’è materia di profonda preoccupazione per un paese come il nostro. C’è da aggiungere che gli acquisti dalla BCE sono sempre stati visti (dallo stesso Draghi) come uno strumento non risolutivo e non esente da rischi;
- poi ci sono una serie di ipotesi (nulla più che ipotesi, al momento) e una dichiarazione della Presidente Von der Leyen (ma è solo una dichiarazione, e inoltre non sarà certo la Presidente della Commissione a decidere poiché tale livello decisionale è gelosamente custodito dalle sedi intergovernative) intorno alla creazione di un nuovo strumento di stimolo fiscale coordinato e garantito dall’economia europea nel suo insieme. I nomi possono essere tanti: Eurobond, EuroRescueBond, CovidBond, ecc. ecc. Ma dietro i nomi c’è la sostanza: che spese finanzieranno? Quali sono le regole di funzionamento? E le coperture poste a garanzia? In che dimensioni vengono emessi?, ecc. Qui – fondamentalmente – si giocano le vere partite politiche del prossimo futuro. E questo dibattito andrà attentamente seguito poiché è da lì che potrebbero arrivare i segnali tanto attesi.
La domanda a cui dovremo cercare risposta – nel prossimo futuro – è semplice e allo stesso tempo straordinaria: sotto la sferza dell’epidemia e quindi di una minaccia che colpisce tutti (sempre più spesso paragonata giustamente ad una guerra), riusciranno i governi e le opinioni pubbliche del continente a fare il salto qualitativo necessario a dare vita ad una nuova “comunità di destino”?
Ci sono due modalità per rispondere a questa domanda. La prima è quella negativa, di una retorica alla quale non corrispondono fatti incisivi; di un’azione di governi (e retrostanti opinioni pubbliche) che usano (con crescente cinismo) il contesto delle istituzioni e delle regole europee per rafforzare le posizioni relative di ciascuno. Questa risposta è data da tutti coloro i quali “non si fidano” degli altri partner e quindi sentono come propria, autentica, “comunità di destino” – l’unica per la quale è concepibile fare sacrifici – il proprio paese. Per intenderci: i vari sovranismi non c’entrano nulla con questo tipo di risposta (così come “i burocrati di Bruxelles” non c’entrano nulla con la linea opposta) poiché le competenze davvero decisive a questo livello sono delle sedi intergovernative e quindi la mancanza di fiducia nella costruzione di una nuova “comunità di destino” è da attribuirsi in primo luogo ai governi (e alle rispettive opinioni pubbliche) dei paesi leader ed economicamente più forti: Germania e Francia, in primis, che hanno fatto blocco fra loro e con altri (es. Olanda) per frenare ogni accelerazione nel processo di costruzione europea. Il sovranismo rumoroso (di casa nostra, ma anche transnazionale) è solo un fenomeno di reazione. Che certo aumenta la confusione ma che non ha avuto e non ha alcuna responsabilità nel blocco del processo di unità europea. Anzi, paradossalmente, se correttamente utilizzato, ha avuto e può avere ancora una funzione di stimolo.
La seconda risposta è quella affermativa del coraggio. Le “comunità di destino” non nascono per lenta accumulazione di scelte prudenti e iperrealistiche che accontentano tutti. In questo modo nascono solo grandi contenitori diplomatici – cioè statici – che però saltano puntualmente per aria quando la storia fa irruzione con la materia viva dello scontro fra comunità di destino già formate e vitali.
Le regole della diplomazia sono – in questo – profondamente diverse da quelle della politica.
Questo atto di coraggio necessario dovrà essere generosamente fatto dai governi e dalle opinioni pubbliche dei paesi leader: Germania, Francia, ma non solo. Al loro fianco certamente dovranno esserci Italia e Spagna, per ciò che rappresentano nella storia, nella cultura e nella realtà presente del continente. Qui deve esprimersi coraggio e generosità nel concepirsi – con fiducia – parte di una unica comunità, l’unica che può assicurare alla nostra società e alla nostra economia un ruolo adeguato nel mondo futuro.
Le regole dei nuovi bond europei – se essi saranno davvero uno strumento potente di una politica fiscale comune e condivisa – possono essere un buon banco di prova. Vedremo.
Un’altra splendida occasione ci è passata sotto gli occhi da poco. E quasi nessuno se n’è accorto: la discussione sul bilancio dell’eurozona che, se avesse portato alla decisione di un livello consistente di risorse, tale da finanziarie vere e proprie politiche continentali, avrebbe potuto rappresentare quel salto politico da tanti auspicato. Ma così non è stato. Guarda caso, a frenare sono stati sempre gli stessi.
Adesso vedremo che ne sarà del prossimo treno che si annuncia con grande clamore mediatico.
Perché oggi è particolarmente importante ciò che avverrà in Europa?
Perchè l’epidemia sta accelerando la presa di coscienza diffusa dei sommovimenti in atto a livello geopolitico. Non c’è bisogno di evocare scenari di guerra batteriologica (su cui comunque, realisticamente, gli organi a ciò competenti devono sempre tenere alta la guardia) per immaginare quale sia oggi il livello delle tensioni sottostanti alle relazioni fra le potenze mondiali.
La stessa geopolitica tradizionale richiede una revisione ed una integrazione di prospettiva poiché ad una fortissima competizione fra potenze statali si sovrappone non solo una competizione fra modelli di economia e di società (come nell’età della guerra fredda), ma addirittura anche una “mutazione genetica” del capitalismo, da quello classico liberista (e successivamente ultraliberista) a quello – altrettanto e più spregiudicato – che si avvale di potenti “complicità di stato”, quale quello cinese. E’ questa nuova forma di capitalismo che si sta rivelando per molti aspetti più pericoloso, perché più efficiente, del “capitalismo occidentale”[1].
E’ bene essere consapevoli che, se l’Europa non sarà protagonista in questa partita, il suo destino non è la sopravvivenza del più forte (Germania o Francia o UK) a scapito degli altri, ma piuttosto la progressiva infiltrazione e colonizzazione da parte di un modello di “capitalismo geneticamente mutato”, molto ma molto lontano dal nostro stile di vita, dai nostri modelli sociali e di pensiero, cioè da quelle comuni radici cristiano-giudaiche che rappresentano il nostro più radicato patrimonio comune e il nostro più potente elemento di coesione.
Infine, credo sia anche importante che – grazie alla lezione che stiamo vivendo – impariamo rapidamente a leggere nella politica interna di ciascun paese (a partire dal nostro) attraverso lenti geopolitiche, che non sono quelle consuete. Ad esempio, sovranisti/”europeisti” è, a mio parere, una categorizzazione fuorviante. Soprattutto in Italia. Per il semplice motivo che l’Italia è oggettivamente il Paese che ha il massimo interesse alla nascita di una più ampia comunità statuale. La storia della genesi di una grande federazione come gli USA dimostra che furono proprio gli stati più indebitati ad esercitare la più forte spinta verso la federazione. Credo che invece sia molto più feconda – quale chiave di lettura geopolitica della politica interna – una categorizzazione di tipo diverso. Ad esempio: disponibili/non disponibili alla penetrazione cinese nei gangli economici del Paese (grandi infrastrutture strategiche, reti di dati digitali, forniture energetiche, grande industria di base).
Enrico Seta
[1] Mi fa piacere rinviare, per queste analisi, a un saggio ormai risalente a quasi dieci anni fa di Geminello Alvi: “Il capitalismo: verso l’ideale cinese”, lettura (o rilettura) illuminante durante questa tempesta che arriva (forse non a caso, sia in senso biologico che in senso più profondamente simbolico) dall’Oriente.