Tra le grandi speranze e le nobili ambizioni della generazione che aveva conosciuto, nei suoi primi anni di vita, l’orrore della Seconda guerra mondiale, il superamento  delle rivalità nazionali in Europa ha dovuto, nel corso deli decenni, progressivamente  condividere il primo posto con l’aspirazione sempre più diffusa di riuscire a ricostruire un’economia rispettosa della natura: e quindi capace di garantire la sopravvivenza a lungo termine della specie umana attraverso la lotta al degrado dell’ecosistema. E quella generazione ha trasmesso queste ambizioni a quelle successive sotto la forma, da un lato, delle istituzioni di Bruxelles, come punto di riferimento di una società post-nazionalista, e, dall’altro, di una vasta consapevolezza della necessità di trovare fonti di energia rinnovabili e non inquinanti.

Tutto ciò sembrava acquisito. Sembrava essere parte essenziale del patrimonio politico culturale sulla base del quale, specialmente dopo l’implosione del blocco sovietico, costruire su scala planetaria una società non già post-storica – il che era evidentemente impensabile –  ma la cui storia fosse liberata dalle angosce che avevano caratterizzato gli anni delle ideologie  totalitarie, e poi della guerra fredda.

Da qualche tempo a questa parte, tuttavia, i segnali che vengono dalle istituzioni europee –  sino a ieri ammirate ed imitate in tutto il mondo – come dimostrato dai tentativi di creare il Mercosur in America Latina e l’ASEAN nell’Asia sud-orientale – appaiono confusi e contraddittori,  privi di coerenza o addirittura ridicoli. Peggio ancora, appaiono talora ispirati proprio a quello che esse avrebbero dovuto combattere: il più  gretto nazionalismo economico e l’esplicito egemonismo politico.

Le prove in questo senso purtroppo non mancano, anzi – come direbbe Da Ponte – non c’è abbondanza d’altro. Basta vedere la pietosa posizione assunta dalla Francia su quali siano le fonti di energia che dovrebbero essere considerate compatibili con la creazione di una economia green in Europa.

Tra queste figurano, infatti, non solo il gas naturale – sulla cui funzione in un periodo di transizione concordano anche altri paesi e i principali esperti – ma persino l’energia atomica, contro la quale la Germania, un partner di qualche peso nelle questioni europee, ha invece assunto, durante il cancellierato della signora Merkel, la  posizione nettamente opposta. Tanto da varare una ragionevole politica di chiusura delle centrali già esistenti, chiusura in buona parte già realizzata. E con poche possibilità, per non dire nessuna, di essere capovolta dai suoi successori.

È facile vedere cosa ci sia dietro la proposta francese, cui probabilmente finirà per aderire anche l’Italia, il cui sistema politico non è in grado allo stato – in realtà da alcuni decenni – di esprimere l’interesse nazionale. Dietro la proposta francese ci sono settant’anni e più di ambizioni impossibili a svolgere nel mondo un ruolo di grande potenza, concretatosi in un programma militare di ricerca e sviluppo di cui le 58 centrali atomiche di produzione di energia elettrica (più una in travagliatissima costruzione) non sono che la facciata civile. E la cui non semplice gestione costituisce oggi uno dei maggiori pesi della nostra vicina d’oltralpe.

In pratica, far passare l’energia atomica come accettabile da un punto di vista ambientale, consentirebbe a Parigi di fare poco o nulla in questo campo, anzi le consentirebbe di avviare la costruzione di nuovi impianti addirittura fino al 2045. In pratica, di produrre e di esportare energia elettrica di origine atomica anche oltre la fine del secolo.

Certo ! I sostenitori – che non mancano neanche tra i tromboni politici e gli pseudo “esperti” italiani – dell’atomo come fonte “pulita” di energia,  si mascherano dietro la fictio  di essere favorevoli non già agli impianti fondati sulla fissione dell’atomo, come quelli esistenti, e che producono enormi quantità di residui destinati ad una vita media radioattiva di 2000 anni, bensì su ipotetici impianti fondati sulla fusione atomica, che produce molto meno scorie radioattive. Tali impianti sarebbero  insomma fondati sul processo che avviene in una bomba all’idrogeno, e non su quello, molto meno potente, della bomba atomica, come avviene nelle centrali oggi esistenti.

Le tecnologie applicative nel campo della fusione sono però ancora tutte da inventare, anche se in Francia viene condotta, a spese della comunità internazionale, un audace sperimentazione che pone problemi ben esemplificati dal fatto che si ha a che fare con materiali alla temperatura di 200 milioni di gradi. La fusione nucleare consiste infatti nel riprodurre i processi che avvengono sul Sole. Una realtà cosmica leggermente diversa da quella di un pianeta, come la Terra, che noi abitiamo, e di cui si dice di voler preservare le caratteristiche naturali.

Giuseppe Sacco

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