Ringrazio Giuseppe Ladetto per l’attenzione con cui segue i miei rilievi ai suoi articoli qui su “Rinascita popolare”. Attenzione che apprezzo in modo particolare in quanto il suo argomentare, sempre molto lucido, mi consente di imbastire dialoghi che ritengo potenzialmente in grado di smuovere un clima culturale, e non parlo solo di quello italiano, ma dell’intero Occidente, che sembra andare verso l’inaridimento più totale con possibili conseguenze ricadenti in primis sull’azione politica di quest’ultimo e, in particolare, sull’Europa, a cominciare dai Paesi più deboli di essa.

Vorrei fare una premessa: i miei desiderata politici europeistici concordano in toto con quelli che Ladetto espone, che mi sembra che possano riassumersi nell’autonomia di un vagheggiato polo europeo unificato avente la forza politica, militare ed economica sufficiente per decidere unitariamente i propri destini trattando da pari a pari con tutti gli altri poli autonomi mondiali nel solco della propria tradizione culturale e politica.

Pertanto, non essendoci divergenza di opinioni sugli obiettivi che ambiremmo raggiungere è chiaro che la discussione si può ridurre a esaminare quali potrebbero essere, ammesso che siano di possibile attuazione, le modalità utilmente impiegabili per la costruzione di uno Stato federale unitario europeo, visti i suoi interessi strategici, non sempre collidenti con quelli degli USA, e le sue peculiarità culturali nell’ambito della civiltà occidentale.

Ridotta all’osso la differenza tra l’impostazione di Giuseppe Ladetto e la mia mi sembra ridursi a pochi punti. Pochi punti che però mi sembra essenziale approfondire se vogliamo provare ad impostare in termini teoricamente possibili la questione, cosa che comunque resta solo un semplice presupposto rispetto alla possibilità che nella realtà storica si possa realizzare, rebus sic stantibus a livello mondiale, un fenomeno così rivoluzionario come l’unità politica europea.

Rispondendo alle mie osservazioni Ladetto riconosce che tra le varie nazioni europee (in particolare tra quella italiana e e le altre) ci sono differenze notevoli nel modo di reagire nell’agone geopolitico e, dopo aver confrontato i comportamenti, si chiede chi è in difetto. Tutti e nessuno, mi vien da rispondere. Semplicemente, come succede per gli individui, anche i corpi collettivi (e, conseguentemente, le loro classi dirigenti) hanno una loro indole nazionale, dei mores specifici, che ne determinano, quasi meccanicamente, la reattività e gli obiettivi a cui tendere. Benedetto Croce, approfondendo il carattere collettivo italiano, affermò, facendo una premessa generale, che il carattere dei popoli “è dato dalla storia, tutta la storia, nient’altro che la storia”. È una forma di educazione collettiva quella che gli avvenimenti storici, in parte anche inconsciamente, imprimono nei popoli (e che le loro classi dirigenti, a seconda dei casi, assecondano o contrastano a seconda che intendano governare appoggiandosi “in statu quo” o ambendo a una “rifondazione” dello Stato, avvertendo comunque che in essa sta il fondamento della governabilità dei loro popoli) in relazione ai comportamenti che gli stimoli politico-sociali fanno apparire opportuno tenere per la conservazione e lo sviluppo della collettività nel suo insieme, ovviamente accompagnata in ogni singolo cittadino al carattere e alla specifica educazione familiare che opera in esso uti singulus (e, per stare nel concreto, la Francia è una maestra in ciò).

Normalmente succede che, quando più popoli si fondono per conquiste militari, il vincitore ricerchi l’unità forzando i popoli conquistati ad assumere un comportamento omogeneo (spesso a cominciare dall’adozione della stessa lingua dei vincitori, quindi, al limite, annullando le differenze nazionali) con quello dei conquistatori.

Talvolta ciò accade anche automaticamente. Allorché frequentavo il corso di laurea in Giurisprudenza il mio professore di Storia del Diritto italiano raccontò che, dopo l’annessione del Trentino all’Italia, alla prima dichiarazione dei redditi la popolazione trentina, con grande coscienza civica, denunciò i redditi sino all’ultima lira. Naturalmente il fisco italiano si guardò bene dal credere alle dichiarazioni rilasciate e, more italico, tassò i contribuenti per un reddito doppio. Con altrettanta naturalezza negli anni successivi gli onesti trentini denunciarono la metà dei loro redditi onde poter ottenere così di pagare la giusta tassazione. More italico, quindi.

Lo stesso succitato impero asburgico, pur nella pluralità di nazionalità incorporate, è correntemente riconosciuto che ha lasciato, nelle popolazioni che di quell’impero per secoli hanno fatto parte, ancora una certa impronta unica di base che, per l’appunto, continuiamo a chiamare “asburgica”.

Il raggiungimento di un’unificazione dei mores è fondamentale per l’efficienza di uno Stato in quanto una loro eccessiva frammentazione “morale” rende alquanto difficile ai governanti, anche in un generale quadro culturale nazionale unico, sia legiferare sia governare (in Italia, Paese arrivato tardi all’unificazione politica rispetto alle altre nazioni europee, ne sappiamo qualcosa). Il sentire come “straniero” e, purtroppo, talvolta come nemico un proprio interlocutore o, al contrario, sentirlo come proprio “concittadino” trae un grande impulso e favorisce la compattezza nazionale dal fatto di aderire ad un unico sistema di valori civici, informanti i mores comuni della cittadinanza a cui si appartiene, anche se il senso nazionale è qualcosa di ben più vasto e profondo. Il caso italiano ne è una prova, dal momento che la sua nazionalità comune è in grado di reggere senza grandi ripulse differenze, spesso addirittura municipali, anche molto profonde. Il che ci spiega l’importanza che gli Stati, strutture istituzionali preoccupate di gestire il potere sovrano, danno all’integrazione, processo che consente di trasformare lo straniero di lunga residenza, o i cittadini di nuovi territori annessi, in concittadini spontaneamente piegantesi alle norme, legali e non, del Paese in cui vive, evitando il caos sociale o, quanto meno, difficoltà di governo.

Detto questo torniamo ad esaminare l’ipotesi di una Francia “portavoce europeo”. Dopo aver dimenticato tutti gli sgarbi che l’Italia ha subito in Libia, nel campo della concorrenza industriale, addirittura, in certi casi, nella violazione della sovranità ai confini, lasciamo parlare Lucio Caracciolo, direttore di “Limes”, che in un articolo su “La Stampa” del 15 febbraio u.s. così si esprime a proposito della necessità che l’Italia (a suo giudizio ritenuta in ambito UE una nazione non affidabile, e quindi quasi uno Stato sotto tutela) si comporti seriamente industriandosi nel “produrre progetti decenti integrati in una strategia di ricrescita economica (…) così dimostrando anzitutto a noi stessi (italiani, ndr) e poi alle potenze cui ci siamo affidati (in una sorta di “amministrazione fiduciaria”?, ndr) – la Germania, sotto il profilo economico, l’America riferimento strategico, con la Francia anello di congiunzione fra le due – che meritiamo di esistere. Prova del nove è la gestione dei finanziamenti comunitari che dovremmo incassare non gratuitamente nei prossimi mesi ed anni, a patto di produrre progetti decenti integrati in una strategia di ricrescita economica”.

Non era certo questo lo spirito che animava il Regno di Sardegna sabaudo e il Regno di Prussia bismarkiano nel farsi portavoce rispettivamente dell’unità nazionale italiana e di quella tedesca! Altro era l’animus alla radice dell’unità nazionale!

Alla Francia interessa solo fare da mediatrice tra la Germania (vista un po’ come la “testa calda” d’Europa che scalpita per far valere il suo primato economico, e quindi geopolitico, continentale, e conseguentemente da “tenere sotto controllo”) e gli USA (il vero dominus della situazione) e con questo mantenere un certo stato di media potenza che non la faccia sentire troppo inferiore alla Germania. È chiaro che l’animus è quello di, mi si passi l’espressione un po’ cruda, “non farsi gabbare dal socio in affari”, non certo quello di chi si assume un compito di integrazione politica di più Stati in un nuovo Stato federale sovrano.

E fare da mediatrice nel gioco, e non certo da unificatrice, consente alla Francia di non sentirsi al livello di una “qualsiasi Italia” di cui Caracciolo, che ben ne conosce la fragilità statuale, paventa addirittura che sia anche a rischio la stessa unità politica tra il Centronord, economicamente prezioso come vassallo economico per la Germania, e il Sud fortemente arretrato dal punto di vista economico e sociale e tormentato, come certi stati latinoamericani, della limitazione di fatto della stessa sovranità statale ad opera della criminalità organizzata: una sorta di nuova forma di feudalità ricattatrice del governo centrale attraverso la sua influenza sui partiti politici ormai trasformatisi in “comitati d’affari”. Un’Italia messa ormai a repentaglio dai suoi inefficienti “re fannulloni” di cui parlare di malgoverno, con riferimento in particolare all’ultimo trentennio, è una graziosa litote. In conclusione, come dice il detto, “Ognuno per sé e Dio per tutti”.

Il grande limite, psicologico, ancor prima che logico, della moderna cultura occidentale, a partire dalla fine del XVIII secolo è che essa ha assorbito – alle volte coscientemente, quando non addirittura programmaticamente, ma spesso anche solo inconsciamente – la mentalità astratta ed “esatta” della fisica, o meglio della meccanica, del sistema galileiano-newtoniano, la cosiddetta razionalità scientifica, pretendendo di “ingabbiare” tutte le discipline conoscitive umane in immutabili schemi astratti e universali che deterministicamente consentirebbero la conoscenza cosiddetta scientifica del mondo, sia naturale che umano. Il che, nelle discipline umanistiche, qual è la politica, ha portato a dare grande importanza, per gli effetti che ne possono sortire, ai contenuti letterali dei testi di legge (ma vale anche per gli accordi internazionali sancenti dei principi), e, particolarmente, di quelli costituzionali; quasi avessero la stessa natura necessitante che si riscontra nelle leggi della meccanica classica, facendone il fulcro di tutto. Senza rendersi conto che esse esprimono solo dei desiderata di una classe dirigente, appoggiata da più o meno vasti gruppi di cittadini; e che questi desiderata, per essere molto vicini a costituire efficientemente quella che è la “costituzione materiale”, cioè l’effettivo sistema di regole e principi costituzionali accettati e seguiti dalla gran massa della popolazione (una legge, massimamente se costituzionale, funziona solo se i più la seguono per consenso spontaneo, in caso contrario la stessa possibilità di sanzionare i trasgressori viene praticamente meno e la legge agli effetti pratici è come se non esistesse), bisogna che abbiano una buona sintonizzazione con quelli che sono i mores che la popolazione convintamente segue. E la convinzione morale, com’è risaputo, ha le sue radici in profondi retaggi storici, che possono anche essere scalzati e sostituiti da altri più adeguati alle nuove condizioni storiche, ma solo mediante una seria azione di natura culturale che, se ben accolta dai cittadini (e ciò può succedere solo se il comportamento della classe dirigente è conforme al predicato, e quindi credibile: l’esempio efficace viene sempre dall’alto), ne modifica l’animus creando un “civis novus” diversamente orientato nei comportamenti sia verso la collettività dei concives sia verso lo Stato. È in quest’ottica che a suo tempo su “Rinascita popolare” lanciai una proposta culturale intesa a forgiare un Homo europaeus.

Giuseppe Ladetto saggiamente, pur vagheggiando (almeno così mi sembra) uno Stato federale europeo, realisticamente abbassa la posta osservando che “l’attitudine competitiva delle varie nazioni europee (…) non impedisce che possano avere obiettivi comuni e condivisi, soprattutto quando questi sono di importanza vitale”. Però alla luce di quanto detto in precedenza circa l’animus che fa sentire dei gruppi di uomini come appartenenti a una stessa polis (in senso lato possiamo dire una nazione, quale ad esempio si sente anche la multilingue Svizzera, pur nelle sue diversità stricto sensu etniche), non può non essere rilevato che così facendo Ladetto rischia di confondere la natura che ha la collaborazione tra più collettività sovrane aventi (parziali? e fino a che punto?) “obiettivi comuni e condivisi” con il legame (la tradizione politico-filosofica parla spesso di contratto sociale) che nasce dall’appartenenza a un’entità politica sovrana, a una polis, a una società politica, per l’appunto. Centralista o federale che sia, tale società richiede come fine imprescindibile il bilanciamento degli interessi di tutti i cittadini, visti come singoli o come gruppi organizzati di essi, tra loro variamente agglomerati in relazione agli interessi specifici di cui sono portatori.

Nel primo caso le entità consociate sono delle semplici controparti (quindi restano degli autonomi centri di interessi contrapposti) che, formalmente tra loro paritarie ed indipendenti, sostanzialmente si trovano ad agire misurando le proprie forze in base al proprio “potere contrattuale”. E combattendo come due pugili sul tappeto, contrattano all’interno del quadro fissato dalla Istituzione comune che ne delimita il comportamento procedurale da tenere, mirando ognuna unicamente ad ottenere il proprio massimo vantaggio, pur nel rispetto delle procedure, indipendentemente dall’interesse generale dell’Istituzione stessa che funge da semplice garante della correttezza formale della trattativa, ma preoccupandosi unicamente del proprio interesse di parti (sono appunto semplici contro-parti).

In poche parole: nel primo caso abbiamo l’atteggiamento tipico di chi tratta affari commerciali, dal quale mi pare che sostanzialmente non differisca l’atteggiamento che in politica estera tengono tra loro gli Stati sovrani, ancorché vincolati da patti internazionali.

Nel secondo caso invece è in gioco la pax civium all’interno dello Stato sovrano mediante l’uso, a fini di giustizia (principio del dare a ciascuno il suo secondo criteri avvertiti generalmente come equi dalla collettività dei cittadini, e quindi visti come rispettosi dei loro mores, anche qui siamo di fronte a un animus), del potere sovrano stesso e quindi la massimizzazione dell’interesse dell’intera collettività che, necessariamente, porta ad esaltare come principi sommi la giustizia e la solidarietà. Questi, che debbono essere i fini essenziali delle istituzioni statuali (gli antichi scrittori affermavano addirittura che erano dei latrocinia, delle bande di briganti, quelle che non perseguivano fini di giustizia nell’esercizio del potere) sempre e comunque, lo sono particolarmente in quelle che si dichiarano democratiche.

Ma questo fine, malgrado le intenzioni espresse dai trattati, nei fatti è oggi inesistente come fine effettivo della UE in quanto essa nella sua azione si ispira al principio, propriamente tecnocratico e, potremmo dire, antipolitico (nel senso che nega la supremazia della politica sulle scelte del quadro economico, ancorché di libero mercato, in nome di una crescita infinita, sempre più liberalizzata ed esasperatamente velocizzata nella sua innovatività), di regolare materie relative all’economia e alla finanza secondo principi di una società in cui tutto ruota intorno ad una concezione del mondo, implicitamente presupposto come dotato di risorse infinite. E quindi ritenuto sviluppabile senza limiti dettati dall’ambiente, il cui sfruttamento competitivo, grazie alla cooperazione tecnocratica, rafforzerebbe le strutture economiche degli Stati associati dando loro più potere contrattuale nella lotta per la conquista dei mercati in un mondo presupposto (e auspicato dall’establishment europeo, a rimorchio di quello americano) come globalizzato. Mi sembra che oggi la UE voglia, con la sua azione, dimostrare proprio questo teorema, che assurgerebbe a “scopo sociale” in base al quale verrebbero gratificati gli Stati associati che raggiungono buoni risultati economici e verrebbero puniti quelli che tali risultati non raggiungono, come se l’UE fosse un gruppo industriale che comprende delle divisioni operative remunerative accanto ad altre non remunerative.

La cooperazione europea, iniziata nel 1951 con la CECA, e poi proseguita con il MEC, aveva un evidente scopo pacificatorio tra le nazioni europee ed era ispirata a un fine di solidarietà economica orientata allo scopo di avvantaggiare ed integrare equamente, in un clima di solidarietà, le economie del nucleo fondamentale dell’Europa Centrale (la Piccola Europa a sei). Effettivamente in tale nucleo si poteva cogliere un animus solidaristico, e giustificatamente antinazionalistico, che col tempo avrebbe potuto sfociare in un progetto federativo europeo.

Ma con l’avvento nella prassi politica ed economica delle idee anarcocapitalistiche – agli inizi, probabilmente in modo inconscio mascherate da liberismo spinto da Reagan e dalla Thatcher – e poi con la globalizzazione succeduta alla caduta del comunismo, apertamente professate come momento salvifico del mondo intero in lotta contro il “reazionario” sovranismo (si vedano le teorie di Zbigniew Brzezinsky in La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’era della supremazia americana, 1998), il modo stesso di concepire la collaborazione europea cambiò natura diventando, paradossalmente, un inconscio estremo attuatore delle idee anarcocapitalistiche, propugnate dal globalismo che le multinazionali statunitensi stavano imponendo ai politici del loro Paese abbacinati dal crollo sovietico. E dico “paradossalmente” in quanto proprio in quegli anni, guardando le cose dall’esterno si aveva l’impressione, in particolare attraverso la trasformazione in elettivo del Parlamento Europeo, la creazione dell’Ecu e poi dell’Euro,che si marciasse verso la creazione di uno Stato federale.

Due riflessioni ci portano a questa visione paradossale della UE:

1) una osservazione che Antonio Padoa Schioppa fece in un opuscolo apologetico di Autori Vari (Ed. La nave di Teseo, pagg. 152) su che cos’è diventata da quando cadde il muro di Berlino ad oggi la UE, come ci siamo arrivati e dove potrebbe andare, dopo non aver però mancato di rilevare come il potere di veto in capo agli Stati membri tenga fuori dalla competenza delle direttive dell’Unione settori importantissimi come: politica fiscale, bilancio pluriennale (importantissime per la tutela della giustizia sociale) e quasi tutte le materie legate alla politica estera, a cominciare dalla difesa, riconosce che per diventare uno stato federale “la cattedrale va completata”. Vedi caso si tratta di materie essenziali intorno alla quali ruota la sovranità di qualsiasi Stato.

2) Ma nello stesso opuscolo apologetico Piergaetano Marchetti fa un accenno al fatto che vi è un “prezzo” pagato all’Europa, e che questo, che si sostanzia in una “presunta perdita di sovranità”, non dev’essere considerato eccessivo per un bene comune come la pace, che nessuna nazione “sovrana” da sola è più in grado di assicurare ai propri cittadini. “Se per sovranità – dice Marchetti – si intende la capacità di essere arbitri del proprio futuro, libertà di scelta, rifiuto di condizionamenti che rendano subalterni (…) la sovranità dell’Italia non è scindibile da quella dell’Europa. Un’Europa forte, integrata, capace di decidere in tempi rapidi, in modo democratico ma con una struttura decisionale che non dipenda ogni volta da complesse trattative intergovernative” e auspica un rafforzamento in senso federale che “costituisce presupposto e la garanzia anche della sovranità nazionale”.

È evidente come i due autori suddetti, presi da foga apologetica (che posso anche condividere, se si tratta di difendere gli obiettivi europeistici in quanto tali, cosa che credo che venga condivida anche da Ladetto) hanno finito col confondere un discorso ontologico (cioè i fatti storici davanti ai quali ci troviamo) con un discorso deontologico (cioè come il nostro sistema valoriale vorrebbe che andassero le cose e, quindi, come si è disposti ad impegnarsi, però senza avere avuto la garanzia circa la fattibilità storica del proposito in base a calcoli realistici).

Leggendo quanto scritto nell’opuscolo apologetico viene spontaneo chiedersi quale immagine avessero i due suddetti autori della situazione mondiale. E mi sembra evidente che essi, forse non rendendosi conto del cambiamento epocale seguito alla caduta del muro di Berlino, fanno riferimento a una situazione riferibile ai primi anni del dopoguerra e all’immediatamente successiva Guerra fredda, all’abbinamento, allora comprensibilissimo, della NATO, come garante del pericolo sovietico, con il processo di integrazione economica europea con rare tracce di unitarietà e solidarietà politica (che vediamo quanto malfunzionante) all’interno di un processo prevalentemente tecnocratico-amministrativo che gli ultimi trent’anni stanno spingendo sempre più verso la globalizzazione e la connessa, quanto ambigua, polemica antisovranista.

Si avverte nell’attuale UE, in quello che in altra occasione ho definito un “ircocervo anarcocapitalistico”, il principio fondamentale della scuola di Chicago: “Lo Stato è il problema!”. Principio che evoca chiaramente l’invito a far accettare alle classi politiche mondiali (in realtà l’ascolto nei fatti è limitato ai Paesi di tradizione politica occidentale) il riconoscimento che esse devono, per una sorta di destino storico ineluttabile, accettare di funzionalizzarsi, e perciò esercitare al minimo la propria sovranità, al primato, e quindi concettualmente allo spostamento di una parte della sovranità (sostanzialmente quella che potrebbe rappresentare un qualche limite all’azione globale delle multinazionali), del potere economico.

Siamo in presenza di una sorta (mi si passi l’espressione) di “escatologismo economico” che identifica la funzione salvifica del genere umano.

Tale dottrina (mai predicata come teoria ma sempre rivendicata come prassi negli ultimi trent’anni) di fatto ha esautorato, non in termini dottrinari ma nella prassi, le precedenti dottrine di carattere escatologico-politico (la cosiddetta fine delle ideologie, sia democratiche che totalitarie, di cui si parla in continuazione, ma molto confusamente proprio perché sfugge la contrapposizione teorica con le ideologie politiche, mai messa in discussione) che si erano sviluppate con la civiltà industriale tra la fine del Settecento e la fine del Novecento. Tali dottrine di stampo liberale (quelle hegeliane in primis), pur consolidando l’idea della sovranità dello Stato, attribuivano all’attività politica dello stato ideologizzato la tutela delle attività produttive della borghesia.

Ma tale Stato, nel proteggere la propria borghesia produttiva sino in fondo, mostrandosi per lo più socialmente non aperto ai ceti più deboli (da qui lo svilupparsi delle dottrine sociali della sinistra in lotta contro “lo Stato borghese”), finiva col dimenticare la difesa dei cittadini più indifesi, messi fortemente in crisi dal processo di industrializzazione. Si scindeva così nella prassi la funzione dello “Stato sovrano”, dall’idea di giustizia che, in primis, era sempre stata tradizionalmente presentata dai filosofi e dagli scrittori politici come una delle componenti essenziali della sovranità, anche se solo allo scopo di garantire il mantenimento della pace sociale.

Queste dinamiche, fortemente messe in crisi dopo la Prima guerra mondiale che portò in Occidente, accanto a Stati liberali parlamentari, la formazione di Stati totalitari, portarono dopo la Seconda guerra mondiale a un confronto tra il modello totalitario sovietico e i Paesi liberaldemocratici occidentali. Esso fu vinto dall’Occidente per la maggior capacità produttiva mostrata dal sistema economico fiorito in una situazione di feconda ibridazione tra liberal-democrazia e socialismo riformista, che favoriva la distribuzione della molta ricchezza prodotta tra tutte le classi sociali.

Ma nell’ultimo decennio del secolo XX, cominciarono a decrescere i margini di profitto delle industrie dei Paesi di vecchia industrializzazione e i colossi produttivi premettero sui loro governi per chiedere maggiori aperture al di fuori delle singole nazioni di appartenenza (o della stessa UE, all’interno della quale comunque le delocalizzazioni ebbero, a maggior ragione, anche luogo) verso mercati ancora non saturi e a basso costo del lavoro del Terzo mondo emergente, sia in termini di abbassamento e/o eliminazione dei dazi sia in termini di possibilità di delocalizzazione degli opifici.

Così si arrivò a una generalizzata apertura dei mercati mondiali, che portò al trionfo, insomma, delle ultraliberistiche prassi, derivanti da estreme costruzioni teoriche del pensiero politico americano, sviluppatesi in particolare in opposizione al New Deal rooseveltiano: l’anarco-capitalismo.

Tali prassi, a mio modo di vedere, dalle radici molto profonde nello spirito statunitense in quanto risalenti alla ribelle e pionieristica colonizzazione puritana, fortemente antimonarchica, si spinsero sino a cercare di imporre negli accordi commerciali internazionali la possibilità delle aziende operanti in ambito globale di risolvere senza penale alcuna i contratti in caso di richieste sindacali di aumento dei salari da parte delle maestranze locali, e la rinuncia del contraente debole a ricorrere ai giudici statali facendo capo a degli arbitrati privati sostitutivi del giudice statuale.

Lo Stato non è più visto e accettato dai potentati economici occidentali come protettore dei loro interessi, come accadeva nello Stato liberale e liberal-democratico tradizionale, ma è considerato, in coerenza con le dottrine anarcocapitalistiche, unicamente come un’istituzione che va frenata in quanto ne intralcia l’azione interferendo nel Mercato (mondiale), considerato supremo strumento di libertà e felicità umana, in una cornice di ottimistica fiducia in una crescita produttiva infinita atta ad arricchire l’intero pianeta. Dal momento che l’istituzione-Stato non può realisticamente essere abolita senza utopici rivolgimenti politici, per evitare ciò va quanto meno asservita imponendo, sulla base di accordi internazionali richiesti ai propri governi (l’Amministrazione USA li ha favoriti al massimo), pesanti forme di eliminazione di quelle clausole che potrebbero comportare maggiori costi di produzione. Il tutto accompagnato da una divulgazione presso il cittadino elettore dell’idea che la libertà del cittadino è meglio tutelata dal Mercato che dallo Stato. Idea nuova per l’Europa ma, come si è detto in precedenza, profondamente radicata nel popolo statunitense,

Tutto l’Occidente si è trovato quindi coinvolto, quasi senza rendersene conto, in una rivoluzione strisciante (favorita psicologicamente dal crollo dell’URSS, lo stato socialista per antonomasia) mai riconosciuta ufficialmente da alcun governo occidentale, ma accettata nei fatti come un’ineluttabile svolta storica voluta dal destino e inserita nelle politiche economiche da tutti i Paesi occidentali. Questo perché l’abitudine secolare a ragionare per “escatologie politiche” non consentiva di avvertire la presenza di una mutazione ideologica catalogabile come una “escatologia economica”, sostanzialmente l’aspetto “parapolitico” della dottrina dell’“uomo ad una dimensione” che spostava la sovranità nella sua parte apicale dal potere politico a quello economico. Il tutto, come abbiamo detto, era banalmente partito, a quanto sembra, dal fatto che la saturazione dei mercati richiedeva alle imprese, sempre più finanziarizzate, di abbassare continuamente il costo del lavoro per poter restare sul mercato.

E questo mentre faceva passi da gigante l’economia della Cina, di cui l’Occidente non aveva compreso la pericolosità come potenziale concorrente, grazie anche alla sua solidità statuale che l’Occidente credeva – in presenza di un regime totalitario – una debolezza, avendo questi iniziato ad agire in un’economia di mercato, non tenendo conto della diversità di mores e di visione del mondo del popolo cinese che rendono improbabili lotte salariali e altre rivendicazioni che possano fare aumentare il costo del lavoro oltre limiti di guardia per la tenuta sul mercato delle imprese cinesi. E così la Cina espandeva la sua base produttiva, e le sue conoscenze ed esperienze tecnologiche grazie proprio alle localizzazione nell’Impero del Dragone di stabilimenti delle potenze industriali occidentali, obnubilate dalle prospettive di fare maggiori utili, che si risolvevano in capestri per l’economia di questi ultimi. Evidentemente le prepotenze contrattuali di cui sopra (tentate tra l’altro dagli USA anche con la UE, si veda il mancato trattato commerciale atlantico, affossato da Trump) con la Cina non funzionavano.

Infatti il governo di Pechino è in grado di fare una politica sovrana (e non farsi danneggiare dalle scelte dei suoi colossi industriali ben sottomessi al governo) e di gestire con essa un’economia interna capace di reggere bene anche in autonomia dai mercati internazionali. Doveva solo catturare tecnologia ai Paesi di vecchia industrializzazione, e l’ha saputo fare sulle orme dei, a suo tempo, “cannoneggiati” giapponesi, sole che in questo caso i “cannoneggiatori” si sono “autocannoneggiati”.

Non si può paragonare l’attività economica degli occidentali nei Paesi africani, né il peso contrattuale degli USA nei confronti della fragile UE (che uno Stato non è), sostanzialmente costituita da Stati medio-piccoli, sovente bizzosi, subordinati, politicamente e militarmente, alla potenza politica americana, bisognosi di esportare per sopravvivere.

Ora, tornando anche alle affermazioni di Marchetti sulla UE si avverte anche un’altra cosa: che, affermare la contrapposizione tra UE e Italia, in qualità di Stato membro, significa discutere di una cessione di sovranità in varie materie, salvo quelle espressamente indicate come non trasferite, che sono giusto quelle che, come abbiamo visto, affermano implicitamente il primato dell’economia sulle funzioni stricto sensu politiche che riguardano la tutela dell’uomo in quanto cittadino e sono la struttura portante del potere geopolitico di uno Stato.

Se le cose stanno così, a mio avviso la giusta lettura della UE è la seguente.

L’Unione europea incarna l’ideale anarcocapitalistico, imposto dagli USA nell’epoca post-muro, e con zelo da questa applicato grazie al rifiuto di interessarsi di materie influenti sul “nocciolo duro” della sovranità, addirittura in una forma più pura di quanto non facciano gli stessi USA – limitati in ciò dalla loro funzione imperiale, non certo dalle spinte storico-culturali – dal momento che questi ultimi, ormai da più di un secolo, sono inevitabilmente affermatori di una sovranità politica rilevante geopoliticamente, il che li obbliga a far valere in certi casi estremi la supremazia dello Stato federale con gran forza. Si pensi ad esempio alla recente imposizione ad importanti aziende farmaceutiche di produrre vaccini. L’UE concentra tutta la sua attività sull’aspetto tecnico-produttivo e, libera dalla preminenza della politica sociale (di spettanza dei singoli Stati, come si evince dai limiti d’oggetto delle direttive) su quella economica a beneficio delle imprese (non dimentichiamo che la lobbistica europea è molto forte!), esercita in modo parziale e leggero quel quanto basta di attività politica delegato dagli Stati aderenti (come riconosciuto da Marchetti) i quali, come già sopra accennato, finché economicamente primeggiano sui mercati (interno, dell’Unione e globale) e conseguentemente le finanze pubbliche prosperano, va tutto bene. Se invece la cattiva gestione politica (ma, di riflesso, anche economico-sociale) dei singoli Stati membri fa acqua, i cittadini degli Stati “cicala” si trovano schiacciati tra le tecnocratiche imposizioni risanatorie di Bruxelles e le responsabilità politiche del proprio Stato, parzialmente non più sovrano, rischiando di non avere alcuna possibilità di risarcimento politico-economico.

Essi finiscono così coinvolti in un insanabile contrasto tra il superiore tecnocratico (UE), statuito come sovrano in certe specifiche materie ma impossibilitato di agire politicamente in pro dei cittadini degli Stati membri danneggiati dalle cattive politiche economiche del proprio Stato di appartenenza.

Evidentemente nella spartizione di sovranità tra UE e Stati membri c’è qualcosa che non funziona. E questo qualcosa è proprio l’impostazione anarcocapitalistica, che fa sì che essa operi in campi che la costruzione europea assume in assoluto come degni di superiore sovranità: gli interessi del mercato. Gli interessi ultimi propri della politica sono degradati e lasciati, con gli effetti che abbiamo visto, ai singoli Stati (pseudofederati): primum lucrare deinde iustitiam administrare.

Possiamo dire che espandere all’infinito la conquista dei mercati a tutti i costi è un fine razionale, e che invece è “ventrale” rifiutarsi di seguire tale strada che, sostanzialmente, anziché mettere la ricchezza prodotta senza eccessi consumistici al servizio dell’uomo (sufficiente e ben distribuita), sacrifica la finalità di essere di utilità effettiva all’uomo stesso per raggiungere quantità fuori misura che consentono solo di accumulare in pochissime mani grandi profitti, virtualmente a spese delle future generazioni, visto che, contrariamente all’ingordigia umana, le risorse della Terra sono limitate?

Quindi non siamo in presenza di una lotta per annientare il concetto di sovranità sic et simpliciter in nome della libertà dei mercati, visti come i soli portatori di una felicità universale. Si tratta, caso mai, dell’appropriazione della sovranità politica da parte di un potere, quello economico, basato sul conflitto e l’interesse individuale, eletto, da strumento ineliminabile per la soddisfazione dei necessari bisogni umani qual è per sua natura, a scopo unico di vita (l’uomo a una dimensione) e a momento supremo della vita associata e della storia umana. E ciò a scapito di quelle istituzioni alle quali è deputato di garantire (in un mondo riconosciuto come finito nella sua ricchezza con tutto ciò che ne consegue), al proprio interno la felicità attraverso un’equa distribuzione delle cose, pena la perdita del consenso politico e, al suo esterno sensibilità politica per evitare conflitti su scala planetaria. Altro che contrapposizione tra sovranismo tiranno e libertà di essere felici attraverso il mercato! Qui sono in lotta due concezioni antropologiche opposte che stanno dilaniando la cultura occidentale.

Ladetto nel concludere il suo commento in risposta al mio precedente si pone una domanda: in un modo in cui è inevitabile l’instaurarsi di un assetto multipolare, l’Europa può essere il solo territorio incapace di di rendersi autonomo?

Non mi sento di dare una risposta a questa domanda e lascio al lettore di giudicare, ammesso che l’analisi da me fatta abbia una sua validità, quali probabilità ci siano per l’Europa. Anch’io, come Ladetto, ritengo che possa avere un futuro di pace e prosperità solo se riuscirà a diventare uno Stato federale continentale, dandosi per obiettivo (senza obiettivi nessuno Stato ha forza politica e coesione sociale) quello sovra esposto.

Effettivamente lo spazio per muoversi ci sarebbe. C’è solo da sperare che la complessità geopolitica, economica e ambientale presente, che in questo articolo ho tentato di delineare, non faccia di questo spazio un labirinto.

Domenico Accorinti

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