La recente crisi delle borse, che ha visto perdite del 5 percento da Wall Street a Milano passando per Londra e Parigi, ci ha ricordato due cose. La prima che la paura del coronavirus è tutto men che passata, anche se il calcio è ricominciato e le mascherine iniziano ad essere tenute più al gomito che non alla bocca. La seconda è che la grande politica internazionale – e non solo la finanza senza frontiere – è destinata a plasmare il nostro futuro, ad iniziare dal nostro ruolo in Europa. Mai come nell’immediato dopoguerra la politica estera è stata così centrale. Di conseguenza il programma di un nascente soggetto politico difficilmente ha avuto tanto bisogno di essere redatto a partire da una considerazione sugli equilibri tra le nazioni. Iniziamo quindi a farlo anche noi.

I pilastri della nostra politica estera devono tornare ad essere l’appartenenza all’Unione Europea e alla comunità delle democrazie occidentali, in un sistema di difesa che – con tutti i suoi difetti – non può che essere l’alleanza atlantica. Si tratta di istituzioni decrepite? Nossignori: la Nato va sì ripensata, se non altro perché gli Usa di Trump stanno attuando un ben miope disimpegno, ma mica abbandonata; l’Unione Europea da quando i nostri fratelli inglesi ci hanno lasciato soli ha riscoperto al tempo stesso sistema renano, economia sociale di mercato e persino qualche sprazzo di solidarietà. I vecchi fondatori (che poi sono sostanzialmente tre: Francia Germania ed Italia, non ce ne vogliano gli altri) hanno ripreso in mano il boccino, e se ne facciano una ragione gli altri radunati a Visegrad. Non è solo questione di Recovery Fund, stiamo assistendo ad una svolta forse epocale. Grazie, Signora Thatcher: il tuo nipotino zazzeruto alla fine ci sta togliendo molte castagne dal fuoco. Italia, Francia e Germania sono, inoltre, il nocciolo di una potenziale comunità europea di difesa: l’esperienza degli ultimi 65 anni dovrebbe aver insegnato che il necessario riequilibrio all’interno della Nato, ora che gli Usa tentennano e sbandano, passa da quest’asse europeo vecchio di dodici secoli. E se ha resistito tanto tempo un motivo ci sarà.

Ora, non sfugga che si tratta di tre paesi in cui l’impronta culturale cattolica è particolarmente forte. Non più cattolici in senso stretto, sono tutti cattolicamente plasmati, persino quando fanno il contrario di quello che dovrebbero fare. Come diceva Guareschi dei suoi conterranei della Bassa Padana: non è che tirino un moccolo per negare Dio, ma solo per fargli dispetto. In un caso come nell’altro non sono da imitare nell’errore, ma la differenza tra un comportamento e l’altro è sostanziale. C’è speranza di redenzione, insomma. Così siamo arrivati al secondo punto del ragionamento.

Il secondo punto del ragionamento è il seguente: sta ai cattolici riprendersi la centralità dell’agone politico. E siccome siamo in vena di paradossi, ne tiriamo fuori uno fresco fresco. Eccolo. I cattolici italiani sono messi molto meglio dei loro fratelli tedeschi e francesi. Dei tedeschi perché in fondo – non neghiamocelo – la Cdu-Csu è più un blocco conservatore che non democratico cristiano, ormai. Dei francesi perché l’ultimo cattolico che da quelle parti è contato più di uno zero si chiamava Jacques Delors. Peccato che fosse subalterno, nella linea politica e culturale, al socialismo trionfante di Francois Mitterrand.  E se l’ordinamento costituzionale tedesco è favorevole ad un partito di ispirazione cristiana, mentre il problema è la sua secolarizzazione, in Francia il sistema politico è fatto apposta per annullare ogni presenza di centro cristianamente ispirato. Delors lo insegna. In Italia invece si staglia all’orizzonte il miracolo: una nuova legge elettorale che permetterà la rinascita di forme partitiche dei cattolici e dei laici di buona volontà all’interno di un quadro istituzionale favorevole. Si prega pertanto di non sprecare l’occasione.

Per non sprecare l’occasione, che poi vuol dire dare al Paese una speranza ed una prospettiva, che poi vuol dire dare all’Europa una speranza ed una prospettiva, che poi vuol dire dare alla comunità atlantica una speranza ed una prospettiva, per non sprecare l’occasione dicevamo Politica Insieme è chiamata a fare un salto di qualità. Ma a farlo verso l’alto, senza giocare al ribasso. E siamo al terzo punto del ragionamento.

Tutto si tiene, e De Gasperi stesso – ce lo raccontò una volta Oscar Luigi Scalfaro – amava legare i problemi interni della Dc ai grandi temi internazionali. Non era un vezzo: è che tutto davvero si tiene. A non rendersene conto si rischia di fare qualche grossa sciocchezza.

Innanzitutto, è imprescindibile proseguire, con un necessario rilancio, il dialogo con le componenti cattoliche che hanno manifestato interesse nei nostri confronti. Dice quello: mica facile. Certo, ma se non fosse difficile lo avrebbe già fatto qualcuno al nostro posto. Allora pazienza, pazienza, pazienza: è l’essenza stessa della politica, e qui ci sia perdonata la seconda citazione degasperiana. E poi una raccomandazione: il personalismo cristiano non è mica il personalismo di Craxi, Berlusconi o altri. Quest’ultimo è semmai narcisismo leaderista. Per rifondare l’Italia la Dc scelse governi di alleanze anche quando poteva farne a meno. Quando dirazzò, furono dolori. La politica è cosa corale che si fa coinvolgendo le persone nel senso che si dava all’espressione in quel di Barbiana.

Imprescindibile è anche, in quest’ottica, la primazia delle nostre strutture. Ci sono, sono buone e hanno funzionato bene. Valorizziamole. Anche qui la Dc: il segretario era il segretario, ma il consiglio nazionale era il luogo del dibattito e della sintesi. Noi il segretario non lo abbiamo nemmeno, quindi figuriamoci. Anche perché in compenso abbiamo un direttivo di inter pares che ha dato buona prova di sé.

A proposito di latino: nihil sine episcopo, dice Santa Romana Chiesa. Le strutture territoriali sono da mantenere, esaltare e rafforzare: permetteranno il radicamento del futuro soggetto politico. Guai a fare accordi per le regionali o anche solo intavolare trattative mettendole di fatto in un cono d’ombra: ne esce esautorato tutto il quadro, cioè la rappresentatività di chi opera sui territori come l’autorevolezza stessa di chi compirebbe questo malaugurato testacoda. Riflettiamoci. Se poi fosse già successo da qualche parte, si emendi subito l’errore. Ammettere di aver sbagliato è la forza dei giusti. Meglio un “sorry” adesso che un’intervista domani in cui si finisce per recriminare contro chi ha ottenuto da noi la prova d’amore e poi non ha mantenuto la promessa.

Su queste basi dobbiamo proseguire con il processo aggregativo e fondativo. Stiamo preparando un’assemblea costituente per il nuovo soggetto politico. Ottimo e ineludibile. Ma che sia una cosa sola, nel senso fisico quanto evangelico. Due costituenti per un soggetto che ha pretesa di aggregare ed essere unitario è roba, con rispetto parlando, da far ridere i polli. Si proceda pertanto con chi ci vuole davvero stare. Aver messo una firma sotto un documento scritto a più mani a novembre non basta.

Dobbiamo, in altre parole, liberarci del piccolo cabotaggio per riprendere con forza il cammino segnato dall’assemblea del 30 novembre, che non a caso tanta attenzione suscitò sui media. Se siamo consapevoli di quello che intendiamo fare, non nascondiamoci dietro a un dito. C’è un Paese che ha bisogno di noi, e anche molto di più di un paese. Tutto si tiene.

Nicola Graziani

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