Tutti i giorni leggiamo che l’inflazione non demorde: ha sfondato il tasso del sei per cento su base trimestrale in America e del quattro per cento in Europa. Eppure sia la FED, che è la banca centrale americana, sia la BCE, quella europea, non solo non toccano al rialzo i tassi di interesse (operazione che di solito accompagna l’inflazione per raffreddare il sistema), ma lo escludono espressamente, prevedendo tale eventualità non prima di un anno. Come si spiega questa decisione?

Per capirlo è bene ricordare che durante la fase più acuta della pandemia Covid-19 il tasso di inflazione era negativo. Siamo cioè rimasti a lungo sottozero quando l’obiettivo fissato dai banchieri centrali era quello di avere un tasso di inflazione intorno al due per cento. Ora la ripresa è in atto, è forte ed accompagnata da due eventi straordinari:

Il primo è l’impennata dei prezzi delle fonti energetiche che dal gennaio 2020 ad oggi hanno registrato incrementi inimmaginabili: un fenomeno che non è destinato a durare a lungo.  Essendo il costo dell’energia una componente importante dell’inflazione, con il rientro dagli attuali picchi si dovrebbe attenuare  la spinta inflazionistica.

Il secondo è la modalità della ripresa in corso,  caratterizzata da offerta di beni e servizi (trasporti in particolare) insufficiente rispetto a una domanda in crescita tumultuosa e rapida. Ma anche questo fenomeno è destinato a cessare in quanto i mercati nel tempo tendono a stabilizzarsi.

Ecco perché le due più potenti autorità monetarie del mondo ritengono ancora transitori, e quindi non destinati a durare a lungo, i picchi di inflazione in ripresa. Non solo la FED e la BCE perseguono questa politica. Si è guardata bene dal rompere il fronte persino la Banca d’Inghilterra, che sembrava prossima ad intervenire con l’aumento dei tassi.  Non sorprenderebbe peraltro, essendo il mondo della finanza non certo un ambiente per educande, se la settimana prossima a Londra qualcuno cambiasse idea.

Naturalmente non mancano gli scettici, coloro cioè che ritengono l’inflazione ormai persistente e che continuano a lanciare allarmi. Tra questi, i più intransigenti sono sempre i tedeschi e i banchieri del Nord Europa che non hanno mai smesso di contestare la politica monetaria europea da quando Draghi intervenne pesantemente a difesa dell’euro (“whatever it takes”).

Non c’è più il falco Jens Weimann alla Bundesbank, ma in questa settimana ci ha pensato il capo di Deutsche Bank, Christian Sewing, ad attaccare la BCE spalleggiato dai giornali popolari di Berlino che si sono spinti sino a definire la presidente della BCE Christine Lagarde  “madame inflazione”.

Ci sono comunque  argomenti seri che inducono a ritenere ragionevoli le posizioni dei più importanti banchieri centrali del mondo.  Innanzitutto la constatazione che la ripresa è forte ma i livelli pre covid-19 non sono ancora stati raggiunti.  Il riferimento più convincente riguarda la creazione di nuovi posti di lavoro e quindi  l’occupazione. Raffreddare l’economia quindi non conviene.

Inoltre, è ancora fresco il ricordo del grave errore commesso da Jean Trichet, presidente della BCE prima di Draghi, che nel 2008, su sollecitazione tedesca, aumentò i tassi di interesse al massimo proprio temendo l’inflazione. Sappiamo oggi che questa decisione provocò il collasso dell’economia reale, con i conseguenti reiterati inviti all’austerità che, a loro volta, hanno messo in crisi diverse economie tra le quali anche la nostra. Questo errore da Francoforte non lo vogliono più ripetere

E’ invece certamente prevedibile che sarà ridotto con gradualità lo stimolo rappresentato dagli acquisti di titoli sovrani e di obbligazioni garantite da parte delle due più importanti banche centrali, e questa riduzione è già stata avviata nel quadro di un programma  annunciato da tempo.

Ciò che conta per ora è prendere atto che nonostante tutto le banche centrali continuano a tenere la barra a dritta sui tassi di interesse e che questa linea continua a prevalere.

Guido Puccio

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