La crescita dell’inflazione, per il momento, non sta comportando un mutamento delle politiche espansive delle autorità monetarie. In particolare della Fed e della Bce, nonostante gli aumenti dei prezzi che veleggiano verso il 7 % negli Stati Uniti  e sopra il 5% per la media dei Paesi Ue. Autorità che continuano a interpretare il fenomeno come la conseguenza temporanea di una ripresa troppo rapida dell’economia, motivata dalle asimmetrie generate dall’impatto delle misure nazionali adottate per contrastare la diffusione del Covid, e di una provvisoria carenza degli approvvigionamenti delle materie prime e dei componenti della produzione destinata a rientrare con il graduale ripristino delle attività economiche.

La rinuncia ad assumere i classici interventi dell’aumento dei tassi di interesse e di riduzione della massa monetaria in circolazione, per difendere il valore delle monete, ha una spiegazione politica. In questa fase una frenata dell’economia, e un aumento dei costi per il sostentamento dei debiti pubblici e privati, metterebbero in crisi l’intero assetto delle politiche economiche adottate da parte di tutti i Governi nel corso di una pandemia tutt’altro che superata.

Ma dietro le rassicurazioni formali, sono in molti a essere seriamente preoccupati della convergenza di alcuni fattori legati alle tensioni geopolitiche, che non sono estranee all’aumento dei prezzi dell’energia e delle materie prime, e alla crescita dei costi del lavoro connessi alle difficoltà delle imprese di reperire le risorse umane in grado di assicurare lo sviluppo delle attività economiche, che possono offrire ulteriore carburante al consolidamento delle aspettative inflazionistiche.

Tassi di inflazione che si stabilizzano al di sopra del 4% sono inevitabilmente destinati a generare tensioni sul fronte della crescita dei salari e della tutela dei risparmi depositati nel sistema bancario o investiti nei titoli dei debiti pubblici. Uno scenario inedito, tenendo conto che la preoccupazione primaria delle autorità monetarie, ben prima della crisi Covid, era stata quella di sostenere l’espansione della base monetaria per evitare i rischi di un’eccessiva decrescita dei prezzi, e le conseguenze negative di un rinvio delle scelte di investimento e di consumo delle imprese e delle famiglie. Da parte di molti economisti, di diversa estrazione, la riduzione strutturale dei prezzi viene motivata dall’aumento della concorrenza derivante dalla liberalizzazione dei mercati e degli straordinari aumenti della produttività generati dalle tecnologie digitali. Tendenze che hanno favorito la crescita dei profitti a discapito di quella dei salari, penalizzati dall’aumento della quota dei lavoratori con bassa qualificazione e dei rapporti di lavoro instabili.

L’instabilità delle condizioni professionali ha generato, nel contempo, lavoratori arrabbiati e consumatori esigenti. Il carburante perfetto per la diffusione dei fenomeni nazionalisti e populisti che stanno complicando la governabilità delle democrazie occidentali.

Se queste considerazioni sono fondate è lecito chiedersi se le contraddizioni che sono all’origine della ripresa dell’inflazione non debbano essere interpretate come avvisaglie di un mutamento delle aspettative e dei comportamenti destinati a cambiare il modo di interpretare e governare le dinamiche dell’economia reale.

Per comprendere questa affermazione basta pensare all’insostenibilità dei vantaggi generati dal modello di globalizzazione sviluppato in conseguenza della partecipazione della Cina agli accordi della Wto (che impegnava o il Governo cinese alla progressiva riduzione dello Stato nella economia interna) che ha consentito a questa nazione di accumulare enormi surplus finanziari con la crescita delle esportazioni, reinvestiti nella acquisizione di aziende, tecnologie, materie prime, infrastrutture e persino nei debiti di altri Stati nazionali. Un’espansione del ruolo di potenza mondiale avvenuto nel disprezzo delle regole più elementari della concorrenza e dei diritti umani.

Il tema della sostenibilità ambientale delle attività economiche viene ormai assunto dalle agenzie di rating per valutare le prospettive e la redditività delle aziende. Tutti riconoscono che la transizione ecologica comporterà costi enormi, destinati in vari modi a influenzare i prezzi finali. Tra questi anche quello della sostenibilità sociale rappresentata dalla necessità di migliorare le competenze dei lavoratori, per favorire l’occupabilità, e per sostenere i redditi delle persone nelle transizioni lavorative.

Il tema della sostenibilità sociale sta assumendo un’importanza simile, e per molti aspetti contraddittoria, a quella ambientale. L’Unione europea ha deciso di varare una direttiva per sostenere i salari minimi  in ambito nazionale. Scelte analoghe vengono adottate negli Stati uniti, nel Regno Unito e in alcuni Paesi emergenti.

Molte aziende, tra esse alcune multinazionali di grande rilievo, stanno modificando le strategie del personale per migliorare i salariali e la qualità delle prestazioni lavorative. Troppo presto per ritenere che siamo di fronte a una svolta che mette fine all’epoca del turbo capitalismo, tutto concentrato ad assicurare profitti agli azionisti nel breve periodo a discapito di qualsiasi compatibilità. Ma abbastanza per comprendere che difficilmente si potrà tornare a quelle condizioni.

Mutamenti destinati a modificare i rapporti tra le politiche monetarie e quelle fiscali e salariali che competono alle autorità politiche e alle rappresentanze sociali. Una riproposizione, in ambito internazionale, delle politiche dei redditi nazionali che erano state ridimensionate nei percorsi di globalizzazione in coincidenza della riduzione del ruolo degli Stati nazionali.

Un tema destinato ad assumere un particolare rilievo per l’Unione europea per orientare la riforma del Patto di stabilità, e per i Paesi con un debito pubblico elevato, la cui sostenibilità dipende essenzialmente dal contenimento dei costi dell’indebitamento e da più elevati livelli di crescita dell’economia reale.

Natale Forlani

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