L’ Intelligenza Artificiale rappresenta simbolicamente, nell’immaginario collettivo, ma soprattutto di fatto, l’apice dell’innovazione e del “progresso “ tecnologico.
Trascina con sé due ordini di riflessione: la prima di carattere culturale ed antropologico che non si arresta ad una indagine scientifica circa il valore epocale della tecnica, bensì esige anche il ricorso alle risorse della filosofia e della storia del pensiero. La seconda impatta fortemente con l’evoluzione delle prospettive produttive ed economiche verso cui siamo incamminati e le conseguenti ricadute sulle dinamiche del lavoro.
Ma non è tutto qui. Anzi, da qui prende il via una traiettoria di effetti che si inanellano l’uno all’altro fino ad incidere, attraverso i differenziali di sviluppo connessi alla maggiore o minore capacità di sviluppare sistemi di IA, sulle costellazioni di potere che si andranno affermando sul piano delle relazioni internazionali.
Siamo sì nel tempo della globalizzazione, ma per comprendere la cifra specifica della nostra epoca storica va riconosciuto come sia, soprattutto, l’età della conoscenza. E’ l’intelligenza umana – quella naturale, madrina dell’altra che chiamiamo “artificiale” – a rappresentare la materia prima ed il motore di una crescita che non può più essere misurata solo secondo i criteri quantitativi del consumo.
In altri termini, il tema dell’IA e più in generale della tecnica e della ricerca scientifica, rappresenta – non meno della politica estera, della cura dell’ambiente e del fisco – una delle frontiere su cui l’Europa é chiamata a fare i conti con sé stessa, prima che con il resto del mondo.
Rischia di essere schiacciata tra gli USA da una parte e la Cina dall’altra, impegnate in una competizione che nessuno Paese europeo è in grado di reggere da solo.
L’Europa dispone di grandi risorse intellettuali e strumentali in questo specifico campo ed in altri – a cominciare dalla bio-medicina e dalle tecnologie che consentono di interloquire con i più riposti meccanismi della nostra struttura biologica – ma non basta se ognuno pensa di far da sé e competere sul piano della ricerca per affermato il proprio primato nazionale.
Occorre una concertazione degli sforzi, un impegno comune e coordinato che c’è solo in embrione nei programmi di finanziamento europeo alla ricerca scientifica. In effetti, siamo ancora nel campo delle competizioni incrociate che producono una efficace sommatoria dei risultati via via acquisiti, ma senza quell’ alto livello di integrazione necessario ad accedere a quei risvolti applicativi destinati ad accrescere il
potenziale produttivo ed economico necessario a reggere la sfida con gli altri grandi attori internazionali.
Si sono fatti progressi sul piano di questo impegno comune, eppure è urgente un salto di qualità in ordine ad un puntuale coordinamento della ricerca, a cominciare da quella di base, e dei conseguenti sviluppi tecnologici con i relativi indotti in termini di innovazione di prodotto e di processi produttivi.
Una sconfitta, a fronte dei maggiori competitori mondiali, in questo campo finirebbe per provocare conseguenze non indifferenti anche sul piano sociale.
Domenico Galbiati