C’è chi, dopo la vittoria di Trump, ha ventilato che stia nascendo una sorta di “Internazionale sovranista”. Senonché, “Internazionale sovranista” è un ossimoro. Eppure ci siamo già dentro con un piede e rischiamo di finirci del tutto.

I sovranismi nascono per separare e dividere, per difendersi da chiunque sia “diverso” rispetto ad una pretesa forma originaria della collettività da preservare, a tutti i costi, come strumento di rassicurazione e complemento dell’identità personale dei singoli soggetti che ne fanno parte. Sono esattamente il contrario di ciò che possa essere condiviso, addirittura in un rapporto che associ più popoli e più nazioni. Questo dà il segno di una condizione che, lasciata correre per il suo verso, finirebbe per mostrare palesemente di essere fondata su una contraddizione insanabile, cioè destinata a contorcere il suo assunto contro sé stesso, rovesciandolo, a suo dispetto, nel suo contrario.

I sovranismi, insomma, per loro natura, non possono concertarsi, a rischio di ricavarne una cacofonia insopportabile. Tutt’al più, nel momento della loro prima affermazione, come avviene in questa fase, possono marciare allineati per un breve tratto del loro cammino, in qualche modo contaminandosi a vicenda, ma ben presto i loro tragitti sono inevitabilmente destinati ad intrecciarsi ed a confliggere in un inestricabile “caput Medusae”. Ne risulterebbe un vuoto destinato ad essere occupato da un principio ordinatore di carattere “altro” rispetto al potere della politica e sostenuto dalla forza nuda e cruda della tecnica, piuttosto che della comunicazione o della legge, questa si inappellabile e sovrana, del profitto.

In ultima analisi, il fatto di rivendicare la sovranità esclusiva ed autoreferenziale di una collettività è, in sé, contraddittorio, dato che si pone al di fuori di un concerto più vasto di relazioni e non riconosce una articolazione plurale di ambiti decisionali che corrispondano alla differente dimensione oggettiva delle questioni in campo, cioè la necessaria esistenza di differenziati livelli istituzionali in cui la sovranità prende forma in modo attendibile ed efficace. Si tratta, cioè di una pretesa destinata a rovesciarsi contro sé stessa, fino a soffocare e, con essa, soffocare quel potere della politica che pur vorrebbe abitarla e darne conto, per quanto lo sappia fare solo nelle forme demagogiche e populiste che anche il nazionalismo incarna.

Per quanto le cose del mondo siano intricate e complesse, la politica che, con le sue categorie interpretative è chiamata a presiedervi, non sfugge alla legge misteriosa di una sua linearità geometrica, che opera ineluttabilmente, anche a ritroso, fino a richiuderla su di sé stessa, in un sostanziale suicidio, ove vengano disattesi i suoi fondamentali.

L’Europa è esposta ad una tale insidia e davanti a sé non ha che un bivio. O accelera – ma è difficile immaginare come possa succedere – verso un vero, sostanziale processo di unita’ politica, oppure  é destinata a diventare una sorta di “protettorato” degli Stati Uniti. Tra le due sponde dell’Atlantico non vi sarebbe più un’alleanza, ma verrebbe
esercitata una “signoria” a senso unico. E a quel punto dovremmo chiederci che cosa se ne possa fare dell’Europa uno come Trump. Tutt’al più vorrebbe possederla come colonia che sta al di là di un oceano, sentinella orientale o testa di ponte in quello sterminato continente euro- asiatico di cui non rappresenta che l’ estrema penisola occidentale, territorio di interposizione con il risorgente imperialismo russo. Colonia tenuta, peraltro, all’esazione di tributi. Al contrario, l’ epopea degli Stati Uniti, ancora una vota, quasi fosse una costante della sua storia, deve guardare ad Ovest, ad un altro “West”. Laddove, invece che nelle praterie, nelle acque del Pacifico – soprattutto qui si sviluppa la sfida con la Cina – l’America mette in palio il suo destino.

Domenico Galbiati

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