L’invettiva e la rissa. Senza posa. Non altro si è visto nel “question time” di ieri l’altro a Montecitorio. Non l’argomentazione, il rigore, la ricerca di una misura oggettiva del confronto, nessuna dialettica tra governo ed opposizione. Piuttosto la ricerca studiata e costante, puntigliosa di una reciproca delegittimazione.

Ogni argomento è letto in funzione di un rimpallo di responsabilità e come pretesto di uno scontro sordo e cieco. Ne consegue che ogni tema in esame viene compresso in una tenaglia che lo deforma.

Ciascuna delle due parti lo legge in funzione dei profili che meglio concorrono ad asseverare il proprio pre-giudizio, per cui va in fumo perfino la consapevolezza che si stia davvero parlando della stessa cosa.

Le due parti si scambiano il fuoco incrociato delle rispettive “batterie” di dati esattamente antitetici , per quanto estratti dallo stesso ambito tematico – ad esempio, la sanità – a riprova dell’incapacità degli uni e degli altri ad assumerne una visione ragionata, organica e compiuta.

Nessuna disponibilità a mettere in discussione, dall’ una e dall’ altra parte, neppure una briciola delle proprie granitiche certezze. Al contrario, la dialettica è l’arte di quel reciproco argomentare necessario a definire meglio concettualmente la questione che si sta affrontando.

Stabilito, se non altro, di cosa effettivamente si stia discutendo, ambedue le parti possono legittimamente declinare l’argomento in ragione delle rispettive premesse ideali, culturali e politiche, senonche’, l’una e l’altra, sono a quel punto, per forza di cose, tenute a muoversi dentro un alveo discorsivo condiviso.

Insomma, si gioca la partita secondo regole certe che le diano un ordine sensato e la rendano comprensibile anche a chi sta sugli spalti. Nel nostro caso, al contrario, nulla si vede e si comprende se non una zuffa. Che sia così lo si evince anche dal tono degli interventi.

Dall’una e dall’altra parte si parla “ab irato”, tra urla, strepiti e sospiri, toni reciprocamente irridenti oppure larvatamente minacciosi, cosicché un discorso che, per quanto conflittuale, dovrebbe essere, a suo modo, argomentato e fluido, incespica continuamente in slogan ed in
questi si esaurisce e si dissolve. Fin quando può continuare così?

Può un Paese come il nostro persistere in una simile condizione di sostanziale smarrimento di un confronto politico degno di questo nome, senza che il tenore della nostra democrazia ne soffra piu’ di quanto pensiamo, fino a minare le stesse basi morali del rapporto tra cittadino ed istituzioni?

L’astensionismo e un “campanello d’allarme” e nulla più oppure è già il lamento oppure l’irrisione di un elettorato che si sente spinto ai margini dell’ordinamento democratico e ne prende atto con rassegnazione?

Eppure, in vista della prossima consultazione politica, ad oggi non è percepibile alcuna possibilità di un nuovo indirizzo.

Domenico Galbiati 

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