La fondazione Gimbe sostiene che il Decreto Legge sulle liste d’attesa (Dl 73/2024) non ha ancora prodotto benefici concreti per i cittadini. La sostanza è che, a causa delle liste di attesa, una persona su dieci rinuncia a visite ed esami.
Il tutto a causa avviene all’interno della gestazione del decreto attuativo sulla piattaforma nazionale e del conflitto tra Governo e Regioni sul decreto relativo ai poteri sostitutivi.
Gimbe ricorda come l’Istat registri che, nel 2024, una persona su dieci ha rinunciato ad almeno una prestazione sanitaria: il 6,8% a causa delle lunghe liste di attesa e il 5,3% per ragioni economiche. La motivazione relativa alle liste di attesa è, intanto, cresciuta del 51% rispetto al 2023.
Nino Cartabellotta, Presidente della fondazione Gimbe, sottolinea che, “secondo quanto riportato dal Dipartimento per il Programma di Governo, al 10 giugno 2025 dei sei decreti attuativi previsti dal DL Liste d’attesa, solo tre sono stati pubblicati in Gazzetta Ufficiale, lo scorso aprile. Dei rimanenti, uno è scaduto da oltre nove mesi e due non hanno una scadenza definita”. Così aggiunge che “il carattere di urgenza del provvedimento si è rivelato incompatibile con un numero così elevato di decreti attuativi, alcuni tecnicamente complessi, altri politicamente scottanti’.
La Fondazione sostiene che si è ancora lontani dalla piena organizzazione della piattaforma operativa in cui siano presenti i dati di tutte le Regioni. Cosa che stride con quanto dichiarato dalla Presidente Meloni lo scorso 14 maggio alla Camera. “L’espressione ‘rinuncia alle cure’- sottolinea Cartabellotta- è ormai entrata nel linguaggio comune di politici e media, ma dovrebbe essere abbandonata perché fuorviante: la rinuncia infatti, riguarda test diagnostici e visite specialistiche, non le terapie».
Il dato della rinuncia è sostanzialmente omogeneo in tutto il Paese, senza differenze significative: 9,2% al Nord, 10,7% al Centro e 10,3% al Sud. Negli ultimi due anni- aggiunge Cartabellotta- il fenomeno della rinuncia alle prestazioni non solo è cresciuto, ma coinvolge l’intero Paese, incluse le fasce di popolazione che prima della pandemia si trovavano in una posizione di “vantaggio relativo”, come i residenti al Nord e le persone con un livello di istruzione più elevato.