L’ora più buia? Mentre la guerra in Ucraina vive un momento di grande incertezza e di drammatico “consumo” di uomini e di armamenti, mentre la Russia di Putin pur con qualche avanzamento nel Donbass fatica a sfondare e brucia migliaia di uomini alla settimana e l’economia russa sempre più trasformata in economia di guerra presenta segni evidenti di surriscaldamento inflattivo (e il fondo di riserva nazionale decresce e nella sua parte liquida è ormai sceso al di sotto di 40 miliardi di dollari), mentre l’Ucraina resiste tenacemente su tutto il fronte, contrattacca nella regione russa di Kursk e colpisce in profondità le infrastrutture minerarie e militari, ma segnala di essere pronta ad
una trattativa di pace, piomba su questa realtà come un fulmine l’iniziativa politica dell’amministrazione trumpiana.

Il lungo colloquio telefonico di Trump con Putin, senza una preventiva consultazione con il proprio alleato Zelenszkyi, né tantomeno con la tradizionale alleata Europa, sembra concedere già in anticipo sul negoziato vari punti importanti richiesti da Putin, come il sostanziale riconoscimento di quanto conquistato dalla Russia sul terreno, e al dittatore russo lo status di partner affidabile e addirittura amico. A seguire ci sono poi state le affermazioni del suo ministro della difesa che nega indefinitamente all’Ucraina l’entrata nella Nato, rifiuta la presenza di truppe americane sul suolo ucraino a salvaguardia dei confini, attribuisce agli europei questo
compito ma escludendo l’applicazione dell’articolo 5 della Nato cioè una risposta comune in caso di un attacco russo a queste truppe. Per non parlare poi delle recenti affermazioni del vice-presidente Vance che vede nelle tendenze “autoritarie” (sic) dell’Europa un pericolo maggiore della minaccia russa.

Queste posizioni – seppur da verificare meglio vista la estemporaneità di molte mosse della  nuova amministrazione americana – indicano però con sufficiente chiarezza che Trump: a)

antepone il dialogo diretto tra “grandi potenze” con la Russia (e la Cina) al rapporto con i principali alleati
europei nella NATO;

b) per lui l’Ucraina non rappresenta più un presidio da difendere con forza nei confronti di una aggressione brutale e immotivata;

c) la difesa americana dei principi del diritto internazionale (integrità territoriale, sovranità degli stati, rispetto dei civili nelle operazioni belliche) è messa nel cassetto e sostituita da un approccio puramente transattivo.

Per l’Ucraina, sempre che i fatti corrispondano alle parole del team di Trump (ma le parole sono già esse fatti!) questa è veramente un’ora buia. Vedere il tuo più forte alleato che tratta l’aggressore come un amico e sembra subordinare la difesa del tuo paese ad un più ampio accordo tra Usa e Russia, che lascia intendere che i suoi aiuti devono essere ripagati a caro prezzo con concessioni minerarie (Terre rare) è una doccia ghiacciata sulle speranze di una pace con qualche elemento di giustizia. Ma anche per l’Unione e i paesi europei saltati e nemmeno menzionati come veri partner nel processo di pace, ma solo evocati come “servitori” (non consultati) per assicurare certe condizioni dell’accordo (fornendo truppe di peacekeepers) la doccia è gelida.

Quali sono e saranno le reazioni dell’Ucraina e dell’Europa di fronte a questo cambiamento del quadro politico è oggi questione fondamentale. Dall’Ucraina, conoscendo la tenacia con la quale ha respinto l’attacco iniziale russo su Kiev (e sul resto del paese) e ha continuato a combattere per il proprio territorio, ci aspettiamo che continui a difendersi con tutti i mezzi che ha e che si metta di traverso a ogni tentativo di escluderla da un posto centrale nel negoziato.

Con realismo il presidente ucraino ha già ammesso la possibilità della cessione di parte dei suoi territori occupati dai russi ma subordinatamente ad adeguate garanzie di sicurezza nei confronti di ulteriori attacchi. Questo vorrebbe dire almeno tre cose: innanzitutto la continuazione degli aiuti militari e finanziari da parte degli alleati, poi una presenza significativa di truppe (europee in prevalenza)sul suo suolo con regole di ingaggio forti di fronte a violazioni russe del cessate il fuoco, infine una smilitarizzazione della Crimea, aspetto di cruciale importanza per garantire l’accesso dell’Ucraina al Mar Nero dal porto di Odessa.

L’Unione Europea da parte sua è posta di fronte a scelte di portata storica e vitali per il suo futuro. Il primo passo è quello di riconoscere con lucidità che la lunga delega alla propria sicurezza affidata agli Stati Uniti non è più sostenibile. La presidenza Trump oggi estremizza con brutalità una evoluzione degli interessi americani in corso ormai da anni. La protezione americana è stata fruttuosa nell’assicurare in passato la pace e consentire ai paesi europei di risparmiare sulle spese militari e di investire invece nella protezione sociale, ma ha gravemente addormentato le coscienze politiche.

Il secondo passo è di prendere piena coscienza che l’invasione russa dell’Ucraina è stata un attacco non solo a questo paese ma a tutta la costruzione di un’Europa unita e pacifica; non può essere derubricata a una preoccupazione solo dei paesi dell’Est europeo. E se questa convinzione è stata a più riprese affermata dai politici europei, alle parole devono seguire con urgenza fatti adeguati.

Per dirla in breve: c’è bisogno urgente di una voce unica e chiara in materia di sicurezza, del potenziamento delle risorse finanziarie da destinare alla difesa di una pace giusta (o che quantomeno si avvicini a questo obiettivo) per tutto il continente e della disponibilità a dispiegare truppe sul suolo ucraino.

Di fronte a queste esigenze si leva sempre la voce dello scetticismo: una vera politica estera e di sicurezza dei ventisette paesi è impossibile, un esercito europeo non è pensabile, le risorse finanziarie necessarie non saranno mai accettate dalle opinioni pubbliche…E’ vero certamente che si tratta di sfide difficili sulle quali gli stati europei sono in grande ritardo, ma l’Europa dovrebbe anche ricordare e con orgoglio come, negli ultimi due decenni, sia stata in grado di fare fronte e superare due crisi drammatiche come quella finanziaria del 2008 (peraltro “regalataci” proprio dagli Stati Uniti) e quella del COVID facendo fronte comune contro le difficoltà e creando gli strumenti
necessari e di cui non era in partenza dotata.

Dovrebbe poi ricordare con fierezza che nell’aiuto all’Ucraina non è stata certo indietro agli Stati Uniti in termini di entità finanziaria complessiva pur se il suo aiuto è stato più frammentato tra i diversi stati membri e la Unione in quanto tale.  Secondo l’Ukraine Support Tracker dell’Università di Kiel a dicembre 2024 l’aiuto europeo complessivo (finanziario, umanitario e militare) ammontava a 132 miliardi di euro contro quello americano di 112 miliardi (CLICCA QUI). Inoltre deve essere conscia che con una accelerazione della già avviata integrazione dell’Ucraina può ulteriormente rafforzare questo paese e segnalare che non verrà lasciato solo.

Infine, dovrebbe riflettere sul fatto che le capacità di coordinamento sviluppate tra le forze armate europee nell’ambito Nato possono essere “re-ingenierizzate” in vista di una forza militare comune europea costruita non sulla base di una immediata fusione degli eserciti nazionali ma di una cooperazione sempre più stretta tra le diverse forze nazionali.  Il futuro dispiegamento sulla linea di cessate il fuoco ucraino-russo potrebbe essere un passo molto importante in questa direzione.

E’ chiaro che, in questa prospettiva, tutta la politica di bilancio dell’Unione deve fare seri passi avanti. In parte sono già cominciati con l’annuncio dato da Ursula von der Leyen dell’intenzione di modificare i vincoli stabiliti dal Patto di stabilità e crescita per scomputare dal passivo le spese per investimenti militari sulla base di regole comuni, ma devono essere seguiti con la mobilitazione di adeguate risorse finanziate a debito comune come è stato fatto nella crisi del COVID.

Ma l’imperativo oggi cruciale e preliminare è quello di contrastare con determinazione il rischio di frammentazione dell’Unione. E’ chiaro che una Unione saldamente coesa non piace oggi ai capi delle grandi potenze a cominciare da Trump perché può fare sentire una voce diversa nel grande quadro internazionale. Le azioni coperte o scoperte per minarne la coesione sono già in corso e non possono essere tollerate.

Maurizio Cotta

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