L’ultimo libro di Antonio Cantaro “L’orologio della guerra” è un libro a suo modo autobiografico perché nel rievocare gli eventi internazionali,  le dichiarazioni ufficiali, le coalizioni costituite in difesa di  Kiev, gli appelli dei movimenti pacifisti, dà una lettura appassionata, allo stesso tempo, oltre che dello scontro ideologico, storico e di potere in atto tra l’Occidente e il resto del mondo, anche del suo   personale percorso intellettuale. Per questo motivo il sottotitolo “Chi ha spento le luci della pace” avrebbe ben potuto essere anche il primo titolo del libro, perché l’orologio della guerra scandisce i tempi del conflitto, ma ciò che interessa a Cantaro sono soprattutto le sue cause prime, che si ritrovano: nello scontro politico-ideologico che ha dominato il secolo scorso, nella sua fine, soprattutto nelle relazioni (geo)politiche, dominate da una competizione titanica tra  blocco atlantico e il resto del mondo.

La risposta al quesito cruciale  (“chi ha spento le luci della pace”) Cantaro la riassume così: “La guerra russa contro l’Ucraina e la guerra americana contro la Russia costituiscono un rilevante fronte geopolitico, geoeconomico, geoculturale (non l’unico) di una guerra globale di nuovo tipo, una guerra freddo-calda”, dove si contrappongono democrazie e autocrazie.

Sul presupposto che la guerra si può risolvere soltanto ragionando sulle sue origini, Cantaro parte dal discorso del 22 febbraio 2022 di Putin, in coincidenza con l’avvio dell’“operazione militare speciale”, una vera e propria aggressione. Nella circostanza Putin ha negato il diritto stesso all’esistenza dell’Ucraina, sul presupposto dell’avvenuto suo erroneo riconoscimento da parte di Lenin. Da ciò trae la conseguenza di essere legittimato a rivendicare proprie pretese territoriali nell’intera area d’influenza della vecchia URSS, a testimonianza della ritrovata dimensione nazionale ed imperiale della Russia.

Ciò che interessa di più a Cantaro è però il dopo-guerra: un avvenire indecifrabile senza un’adeguata comprensione delle dinamiche globali in atto dalla fine della guerra fredda.

Al riguardo osserva che già adesso, in mezzo al conflitto armato, Europa e Unione europea, pur se direttamente coinvolte nella fornitura di armi e di aiuti,  si ritrovano ai margini delle dinamiche internazionali, a causa della mancanza di una visione europea del mondo, autonoma e non condizionata dall’alleanza occidentale atlantica. Pronostica che alla fine si formerà  un nuovo ordine postbellico che “segnerà la nascita di un’epoca non più sotto l’egida dell’ordoliberalismo tedesco ma sotto l’ordo-occidentalismo atlantico”.

Nel suo orologio di guerra Cantaro innesta l’attualità del pensiero di due politici di spessore della sinistra, Bruno Trentin ed Enrico Berlinguer (di Berlinguer confessa: “gli voglio bene ancora”), per condividere con loro la convinzione che un grande mercato europeo senza una militanza federalista e senza una politica estera, non serve (Trentin), perché ciò che serve è “una politica capace di rappresentare un quid che va(da) oltre la nostra vita meramente biologica e i nostri semplici desideri”.

L’apprezzamento della geopolitica come unico canone di lettura del mondo equivale, per Cantaro, a sottoscrivere il primato della volontà di potenza, senza vie di uscita. Se Putin auspica per sé il ruolo di capo di una grande potenza e se la Nato persegue l’espansione dei fini e delle sue strategie al di là del disposto dell’art. 5 del Trattato, il conflitto perpetuo è inevitabile.

“Bruciare i ponti – tuttavia – non è nell’interesse dell’Europa né della Russia”, anche se resta il fatto che Putin porta la responsabilità storico-politica più grande della rottura dei residui ponti.

Cantaro s’iscrive al partito della pace, con uno stato d’animo pervaso di intrinseco pessimismo, a causa dell’esigua schiera dei dichiarati patrocinatori di pace, con un’autorevolissima eccezione. A questo partito s’iscrive infatti Papa Francesco che, con gli ammonimenti della “Fratelli Tutti” testimonia  che non c’è pace sino a quando non verrà contemporaneamente riconosciuta “la dignità dei nostri fratelli”. A tal fine fa proprie le parole dell’Enciclica ove si legge: “Espressioni come democrazia, libertà, giustizia” sono state utilizzate come titoli vuoti di contenuto, mentre si deve superare “quell’idea delle politiche sociali concepite come politica verso i poveri, ma mai con i poveri, mai dei poveri e tanto meno inserita in un progetto che riunisca i popoli”.

Guido Guidi

 

 

 

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